Venerdì scorso, la Francia è stata colpita nel suo cuore, a Parigi, da azioni terroristiche mai sperimentate prima per violenza, ampiezza e numero di vittime. Chi le ha pianificate, come atto di guerra, voleva scatenare una risposta altrettanto violenta, sul piano militare, strategico ed economico. Ed è riuscito nel primo intento: si è legittimato, nel corso del G20 in Turchia, come “il nemico” da combattere, facendo addirittura cadere quel muro di ostilità che divideva gli Usa dalla Russia dopo l’annessione della Crimea.
Il risultato più pericoloso dal punto di vista strategico è stato l’agglutinamento attorno ad un unico soggetto, il format dell’IS, di tutti i singoli conflitti locali in corso: da quelli che insanguinano il Mali e l’Africa francofona a quelli neotribali in Libia, dalla guerra civile in Siria alla instabilità endemica dell’area popolata dai Curdi. Senza dimenticare il controllo del Sinai, la ancor debole statualità irachena e le vicende afgane.
Bisogna evitare, ora, di mettere a comun denominatore una reazione all’attentato di Parigi, che è assolutamente doverosa ed inevitabile, con una entrata in guerra di cui non sono chiari né i limiti né gli obiettivi da conseguire. Si vuole colpire, giustamente, la “testa del serpente” a Raqqa, già coperta di fuoco dagli aerei francesi. Si ripete, tal quale, la reazione americana all’attentato alle Torri Gemelle, quando si dichiarò la necessità di snidare Al-Quaeda nei suoi santuari afgani.
Si ripetono diversi errori. Innanzitutto, non si è appresa la lezione della pervasività del fenomeno terroristico, che si trasforma e si evolve in continuazione: per un Osama Bin Laden che viene ucciso c’è un Abu Bakr al-Baghdadi che si autoproclama Califfo.
Si legittima così una duplice identificazione negativa, quella dei due nemici: da una parte c’è il terrorismo jiadista, che rappresenta un fattore pervasivo di un’area potenzialmente enorme del globo; dall’altra un Occidente capace solo di guerre e di interventi di destabilizzazione nell’area, dalla invasione sovietica nell’Afganistan del 1979 alle guerre americane nel Golfo, agli interventi a sostegno dato alle “primavere arabe” con la caduta delle democrature in Tunisia, Egitto e Libia, fino alla spallata non riuscita contro Assad in Siria.
C’è poi un’altra mistificazione da smontare, quella secondo cui c’è una identità storica ed ineliminabile nel mondo islamico, tale per cui non ci sarebbe alcuna distinzione possibile tra autorità politica e potere religioso. E’ vero esattamente il contrario: tutta la storia della decolonizzazione nell’area nord africana e mediorientale, per quanto a tratti sanguinosa e comunque per lunghi anni violentemente antioccidentale, non ha mai fatto perno sul fattore religioso: da Nasser in Egitto a Gheddafi in Libia, dalle monarchie giordane allo Scià di Persia, fino all’Iraq di Saddam Hussein. Citare come unico esempio di laicità dello Stato la rivoluzione di Ataturk è assolutamente inesatto.
E’ forse ben vero il contrario, che gli Occidentali hanno strumentalizzato la deriva religiosa per combattersi a vicenda: nel 1978, l’Ayatollah Khomeini fu fatto partire in fretta e furia da Parigi, dove era stato esiliato, per insediarlo a Teheran come successore dello Scià, evitando che il partito socialista e filosovietico Tudeh facesse entrare la Persia nell’orbita dell’Urss. Dopo l’invasione sovietica dell’Afganistan, nel 1979, gli Usa armarono i mujaheddin per ostacolarla: Sylvester Stallone, nel film Rambo III, raccontò questa epopea che al box office mondiale incassò ben 189 milioni di dollari.
Da allora, è stato impossibile rimettere il genio nella lampada: la demolizione degli eserciti di Saddam Hussein in Iraq e di Gheddafi in Libia ha mandato in frantumi anche queste statualità. In Egitto, la breve presidenza di Morsi è stata il frutto della rilegittimazione elettorale dei Fratelli musulmani, esclusi per Costituzione dall’agone politico sin dai tempi di Nasser. Volenti o nolenti, dobbiamo riconoscere che quella religiosa è stata una leva che l’Occidente ha usato prima con cinismo e di recente con immensa superficialità.
C’è un tema ancora più delicato, tutto interno alle problematiche occidentali: quello dei cosiddetti foreign fighter. Secondo la teoria politico-sociologica adottata dalla Amministrazione americana, il terrorismo esisterebbe solo nelle società non democratiche, poiché le dittature non danno spazio al dissenso e questo trova sfogo solo nella violenza. Questa è la ragione per cui sono state sostenute le primavere arabe: se si vuole eliminare il terrorismo è indispensabile “esportare la democrazia”. Se tutto ciò fosse vero, occorrerebbe spiegare anche il fenomeno dei foreign fighter, quello dei tanti giovani europei, inglesi e francesi, di origine araba o meno, che vengono ammaliati dal terrorismo.
Si tratta, ancora una volta, della punta di un iceberg rispetto al malessere che cova: anni fa, nell’epoca dei conflitti ideologici, c’era già chi andava ad addestrarsi in Cecoslovacchia o nei campi palestinesi. Si trascura, soprattutto per la Francia, il degrado nelle banlieue: l’ordine è solo apparente. C’è una rabbia sorda, profonda, soprattutto tra i giovani di origine araba, tra i figli degli immigrati dalle ex-colonie, che dilaga per via della non integrazione sociale. E non c’è un solo partito politico che dia voce a questo disagio, che vive nella astensione più astiosa, fino alla bestemmia laica: “Merde la France!”. D’altra parte, la precedente dichiarazione dello Stato di emergenza fu determinata dagli inarrestabili disordini e dai continui incendi notturni, appiccati alle auto. E’ in questo crogiuolo che si pesca facilmente, è qui che i predicatori e gli arruolatori fanno incetta: anche qui c’è chi strumentalizza la religione per fini politici.