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Tutti i fronti della guerra del petrolio

Crollano ancora i prezzi del petrolio, ai minimi da sette anni. Un ribasso che deriva da un eccesso di produzione che, secondo gli analisti, segnala non solo una divisione interna all’Opec, ma anche guerre incrociate, come quella tra l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita e quella, ad ampio raggio tra Mosca e Washington.

IL PREZZO DEL GREGGIO

Dopo la caduta del West Texas Intermediate – il Wti è un tipo di greggio prodotto in Texas e utilizzato come benchmark nel prezzo del petrolio, sul mercato dei futures del Nymex -, ieri anche il Brent, il petrolio di riferimento europeo, è andato sotto i 40 dollari al barile. La ragione, spiega l’agenzia Reuters, è che l’eccesso di produzione ha spazzato via due terzi del valore del petrolio. Tra le principali cause di ciò, frutto di una strategia condotta prevalentemente da Riyad, c’è l’assenza d’intesa, in seno all’Opec, per una riduzione della produzione di greggio.

IL QUADRO

Al momento, rileva la Cnn, l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio è divisa in due fazioni: da un lato ci sono l’Arabia Saudita e altre ricche petromonarchie del Golfo, in grado di reggere per il momento i prezzi bassi, con cui tentano di mettere in difficoltà i produttori americani di shale oil; dall’altro ci sono Nigeria, Venezuela e altri Stati che hanno invece bisogno di prezzi più alti per sostenere le loro economie.

I COSTI E LA STRATEGIA

Per proseguire questa “guerra contro le materie prime di scisto americane”, riporta Forbes, “l’Arabia Saudita ha probabilmente speso circa 100 miliardi di dollari delle sue riserve in valuta estera”. Ma Riyad, rileva il settimanale economico americano, “dovrà spendere molto di più per vincere la battaglia”. Ora, ci sono segni tangibili che l’Arabia Saudita si appresti a raddoppiare gli effetti di questa sua strategia creando debito. Il quotidiano britannico Financial Times spiega infatti che il Regno saudita si appresta a prendere in prestito fondi sul mercato obbligazionario internazionale per finanziare ulteriormente il suo grande sforzo per proteggere la quota di mercato nel mondo del petrolio e rendere la vita impossibile agli Stati Uniti. L’Arabia Saudita ha bisogno di soldi per mantenere il suo costoso contratto sociale a fronte di un aumento dei deficit di bilancio, che è il risultato della rapida diminuzione dei suoi proventi dal petrolio”. In più, il Regno “è in fase di ulteriore stress finanziario a causa del suo costoso intervento militare in Yemen” contro gli Houthi sciiti.

L’ANALISI DI NEGRI

Questo quadro fattuale, infatti, apparentemente solo economico, scrive Alberto Negri sul Sole 24 Ore, cela anche motivazioni di carattere geopolitico, che si incrociano con la lotta ai drappi neri in Siria e Iraq: “È la guerra del petrolio combattuta alla rovescia”, rimarca il quotidiano confindustriale. “Più il conflitto in Medio Oriente si fa distruttivo e complicato più il prezzo del greggio scende. Oggi l’arma del petrolio si è rovesciata. È un paradosso apparente. L’Arabia Saudita ha fatto saltare l’Opec per mettere al tappeto l’Iran mentre la Russia deve fronteggiare l’ascesa dello shale oil americano”.

UN GIOCO PERICOLOSO

Una tesi sostenuta anche da Giulio Sapelli, dal 1996 al 2002 nel cda del Cane a sei zampe e dal 1994 ricercatore emerito presso la Fondazione Eni Enrico Mattei. Per lo storico ed economista, sentito da Formiche.net, “la strategia saudita è talmente autolesionista che la gente comincia a chiedersi contro chi sia questa guerra, che sta letteralmente scassando l’organizzazione tecnocratica del Regno”. Questo gioco al ribasso, sottolinea Sapelli, nasce in funzione anti Usa. Ma quando la produzione di shale gas e tight oil è diventata sostenibile, le mosse di Riyad hanno cambiato destinatario”. In questo momento, rimarca, la manovra per tenere alta la produzione “è rivolta principalmente contro i russi, che iniziano ad essere i principali alleati dell’Iran nella regione”. Teheran, potenza sciita, “ha preso posizioni molto aggressive in campo energetico, annunciando nuovi tipi di contratti commerciali molto più favorevoli per le multinazionali dell’oil&gas”. Questo, aggiunge lo storico ed economista, “potrebbe cambiare radicalmente lo scenario, tanto più in un momento in cui un altro produttore rilevante, come l’Iraq, è governato dagli sciiti”. Tuttavia, spiega Sapelli, questa strategia, che pure mette sotto pressione Russia, Iran e per certi versi gli Stati Uniti, potrebbe rivelarsi per Riyad una pietra tombale. “Va considerato che i russi hanno una capacità di tenuta sociale molto più alta dei ricchi sauditi, che soffriranno molto dei mancati introiti derivanti dai prezzi bassi del greggio, tanto più in un momento in cui, in generale, l’Opec è divisa al suo interno e produce meno di dieci anni fa. E poi Washington ha dimostrato di voler continuare a finanziare lo shale anche di fronte a una sostenibilità non proprio ottimale, anche a costo di indebitarsi”. Quello del Regno, conclude lo studioso, “è un gioco estremamente pericoloso, perché rischia alla lunga di farlo collassare, ma soprattutto perché se il prezzo del barile non dovesse tornare a un prezzo normale, tra i 60 e gli 80 dollari, c’è il rischio che ciò abbia pesanti ripercussioni sull’intera economia globale”.

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