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Mohammed bin Salman, chi è l’uomo forte di Riad dietro alla spaccatura con l’Iran?

Libano

L’Economist ha intervistato il ministro delle Difesa saudita, e secondo in successione al trono, Mohammed bin Salman: una conversazione, registrata, di cinque ore, che è di per sé una notizia perché la prima fatta a quello che viene ritenuto «la stella nascente del regno», come scrisse David Kirkpatrick sei mesi fa sul New York Times.

Lo scorso anno di questi tempi, Mohammed appariva come uno dei tanti principi sauditi, impegnato in investimenti immobiliari e finanziari, ma da quando suo padre, Salman bin Abdulaziz, ascese al trono sostituendo il defunto fratellastro re Abdullah, ha rapidamente accumulato più potere di qualsiasi altro principe; anche del cugino erede diretto Mohammed bin Nayef (più vecchio e senza eredi maschi). Con il decreto che lo ha posto secondo in ordine dinastico, è stato anche nominato vice primo ministro e direttore del Consiglio degli affari economici e di sviluppo, nonché messo a capo dell’azienda che gestisce il monopolio statale del petrolio, la Saudi Aramco, e della società che si occupa degli investimenti pubblici sauditi.

Mohammed bin Salman (di seguito anche “MbS”. ndr) è arrivato a meno di trentanni al vertice della Difesa, nel momento in cui l’Arabia Saudita è impegnata in uno sforzo storico, sostenendo i governi di Egitto e Giordania, contenendo le pressioni sciite nel regno del Bahrein, dando forza alla ribellione siriana. Da dieci mesi, due mesi dopo la nomina di Salam, Riad è entrata in guerra in Yemen, decisione su cui in molti credono abbia pesato il ruolo del principe: alcuni funzionari occidentali, parlando al NYTimes a giugno, lo avevano definito «impulsivo» e incline alle visioni dei generali. Ma soprattutto, Riad è entrato in un contrasto aperto con il rivale ideologico e geopolitico della regione, l’Iran, rispetto a cui i fatti degli ultimi giorni sono soltanto un lato visibile dello scontro (e probabilmente seguiranno una lunga serie di colpi clandestini).

LA CRISI CON L’IRAN, SECONDO MBS

Durante l’intervista all’Economist, MbS ha spiegato che non c’è stata nessuna ottica settaria dietro alla condanna a morte del chierico sciita Nimr al Nimr, e che il fatto che l’Iran protesti per una condanna decisa da una corte saudita «dopo tre gradi di processo» su un cittadino saudita accusato di aver commesso reati in Arabia Saudita, è una «cosa strana», ma che dimostra come Teheran voglia interferire negli affari degli altri stati della regione. In realtà tanto “strana” la reazione iraniana a Riad non deve essere sembrata, dato che l’Independent ha scritto di aver preso visione di un documento interno, che avvisava la polizia saudita di possibili proteste di piazza dopo l’esecuzione di Nimr. Per bin Salman, inoltre, la decisione di tagliare le relazioni con Teheran, è stata presa da Riad per evitare che le cose peggiorassero. I diplomatici sauditi, spiega MbS, sarebbero stati a rischio di attacchi da parte degli iraniani se fossero rimasti nel paese. «Gli abbiamo evitato questo imbarazzo», chiosa, perché poi a quel punto «avremmo avuto il vero conflitto». Un passaggio chiaro sulla linea del personaggio.

L’editorialista del New York Times Thomas Friedman ha scritto lo scorso novembre che bin Salman potrebbe essere il giovane pronto a canalizzare l’energia degli altri giovani sauditi (quelli che scrivono oltre 50 milioni di tweet al giorno, «una manna dal cielo per una società chiusa») per trasformarla in riforme. L’Economist ha definito le sue visioni (e le sue proposte di riforma) “thatcheriane”: la diversificazione economica dal barile in caduta, l’apertura agli investimenti stranieri, il terrorismo e il contenimento (ma non la guerra, «che sarebbe una catastrofe») nei confronti del nemico iraniano. Invece all’inizio di dicembre 2015, l’intelligence tedesca, la Bnd, ha volutamente distribuito alla stampa un rapporto in cui si definisce bin Salman un pericolo per la stabilità mediorientale, a causa delle sue scelte impulsive: lettura in linea con quello detto dai funzionari americani nel pezzo del NYTimes di sette mesi fa.

Il guaio “Yemen”. La guerra in Yemen, la prima grande mossa militare di bin Salman, è finora un pantano che qualcuno ha chiamato “Vietnam saudita”: doveva durare poche settimane, doveva essere anche una lezione di deterrenza all’Iran, e invece si protrae da dieci mesi senza via di uscita né militare né diplomatica. L’Arabia Saudita, che doveva fare la voce forte e scacciare i ribelli, non solo non è riuscita sconfiggere gli Houthi, ma sta vedendo pure il crescere di entità radicali e terroristiche che si stanno prendendo spazi nel paese, come al Qaeda e l’IS. Per ora lo Yemen, è il più grosso ostacolo che divide MbS dal trono, più della linea dinastica. Ultimo passaggio: Teheran ha accusato l’Arabia Saudita di aver bombardato la sua ambasciata a Sana’a, capitale yemenita, di averla danneggiata e di aver ferito alcuni membri del personale.

LA LINEA DI INDIPENDENZA MILITARE

La decisione di attaccare i ribelli indipendentisti Houthi in Yemen, è stato il primo segnale di una nuova interpretazione del proprio ruolo regionale da parte dell’Arabia Saudita: un ruolo in cui Riad, per volontà di Mohammed bin Salman, dovrà creare una propria politica di difesa autonoma. Autonoma dagli Stati Uniti, facendo da contraltare a ciò che l’America fa con l’energia: l’indipendenza energetica statunitense, si porta con sé il disinteresse verso il Medio Oriente, e in una situazione molto critica come l’attuale, i sauditi vogliono organizzarsi. Per questo il principe ministro della Difesa, ha pensato anche ad un’alleanza militare annunciata in diretta giornalistica (la prima press conference ufficiale) in cui ha presentato al mondo (e in certi casi anche agli altri Paesi, alcuni ignari dell’operazione, pare) quella che molti osservatori hanno definito “la Nato islamica”. Trentaquattro nazioni dell’area MENA (Middle East and North Africa) unite nella lotta al terrorismo (che è effettivamente un problema per la casa Saud, minacciata anche nell’ultimo audio-messaggio del Califfo Baghdadi), minaccia regionale, e poi, in un’ottica più geopolitica, contro l’Iran; i Paesi dell’alleanza sono tutti a maggioranza sunnita, e non è un caso.

CAPITOLO ARAMCO

La Saudi Aramco (contrazione di Arabian American Oil Company) è la compagnia nazionale saudita di idrocarburi. Possiede e gestisce quasi tutte le risorse del regno, ed è la più grande compagnia petrolifera del mondo in termini di produzione. Mohammed bin Salman allunga i propri ambiti di competenza anche sulla compagnia, e alla domanda dell’Economist sulla possibilità che per sanare i guai del bilancio statale (anche) la Aramco potesse essere messa sul mercato delle quotazioni azionarie, si è detto «entusiasta», e ha annunciato che il piano programmatico è in fase di revisione. Il collocamento in borsa della compagnia petrolifera saudita porterebbe alla creazione della società più capitalizzata del mondo. Praticamente l’affare del secolo.

L’ISOLAMENTO DEL GRUPPO BIN LADEN

Come spiega Daniele Raineri sul Foglio, una delle novità introdotte dalla crescita è l’allontanamento dal centro del business saudita del Bin Laden Group, quello della famiglia di Osama, storico partner economico del regno, e principale componente degli affari internazionali sauditi, dopo il petrolio. (La rivista Intelligence Online ha ricostruito invece il nuovo inner circle degli interessi economici che girano intorno a MbS). È forse una volontà legata alla necessità di affrancare Riad dalle accuse, spesso non troppo velate, di confondersi con il fondamentalismo militante; un confine reso spesso nebuloso dal ruolo giocato da molti elementi, anche interni alla casa regnante, che hanno elargito personalmente fondi alla causa integralista combattente. «Il Bin Laden Group oggi non conta più come prima», e uno dei «colpi di grazia» è stato il crollo di una gru nei cantieri di la Mecca, dove il gruppo aveva vinto l’enorme appalto per la ricostruzione dei luoghi sacri (così come a Medina). Morirono in quell’occasione oltre cento pellegrini, schiacciati dal ponteggio crollato: la reazione di Riad fu dura come non mai, un’inchiesta fu subito aperta, alcuni contratti rescissi, ai dirigenti del Bin Laden Group è stato impedito di lasciare il paese fino a che le responsabilità non saranno definite. Poco tempo dopo, la tragedia immensa dell’Hajj, in cui morirono pare più di duemila persone: anche in quel caso, i cantieri del gruppo sembra che avevano creato problematiche per le via di fuga; con l’Iran, che riportò oltre quattrocento vittime, accusò l’Arabia Saudita di non aver protetto i fedeli.


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