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Cosa succede se anche i giornalisti più puri si “vendono”?

Ho visto il futuro del giornalismo. E l’Italia (per ora) non può permetterselo. Inchieste su temi estranei all’agenda della politica, redattori impegnati su uno stesso argomento senza l’assillo del tempo e in completa libertà. Articoli che vedono la luce anche dopo due anni di lavoro e approfondimento. Già questo è difficile pensarlo da noi. Poi bisogna aggiungere che lo stesso team di giornalisti senza macchia che realizza questa utopia, non disdegna di vedere i propri prodotti, principalmente set di dati raccolti ed elaborati dalla redazione.

Modello di business inedito e difficilmente localizzabile in Italia, pena fare cadere sulla testata che lo volesse adottare l’accusa di avere ceduto al peggiore liberismo e di trovarsi in un grave conflitto di interesse. Peccato che il media che deciso di imboccare questa strada negli Usa sia ProPublica, giornale online non profit, fondato nel 2007. Redazione al di sopra di ogni sospetto. Il tempio del giornalismo di inchiesta negli Usa. Tre premi Pulitzer vinti in otto anni, più altri premi sparsi. Il primo media online ad avere alzato il velo sulle distorsioni dei mercati finanziari, e a spiegare la crisi dei mutui subprime (inchiesta che gli valse il primo Pulitzer, nel 2010).

Una 50ina di giornalisti, più altri 15 impiegati. Ben dieci redattori concentrati sui dati. A vederli nella redazione open space di Avenue of the Americas a New York, sembrano nerd. Non sono tutti economisti. Alcuni sono laureati in filosofia. Sono giovani addestrati e selezionati da un accademia “interna”, il ProPublica data institute, spiega Minhee Cho, direttore delle relazioni pubbliche.

È un corso estivo di dieci giorni che insegna i rudimenti del mestiere. Scavare nelle banche dati, organizzare, rendere leggibili i numeri e poi costruirci storie (ragazzi italiani aspiranti giornalisti, imparate l’inglese e fatevi sotto). Grazie al loro lavoro ProPublica ha sfornato storie come quella sulla concentrazione abonorme di azioni legali per piccoli debiti ai danni degli afroamericani della classe media (si può leggere qui). L’ultimo Pulitzer ProPublica lo ha vinto da poco e non è ancora stato attaccato al muro. La storia di uno stupratore seriale.

Sull’autorevolezza di ProPublica è stato detto molto anche in Italia. Pochissimo, invece, sul modello di business. Sono noti gli inizi. Il milionario Marion Sandler, finanziatore del partito democratico, dona 30 milioni di dollari in tre anni al progetto di un media di nuova concezione e totalmente indipendente. Lo realizza Paul Steiger, ex caporedattore del Wall Street Journal. La donazione serve a coprire i costi dei primi anni. A quella maxi donazione ne sono seguite altre (il mecenatismo a favore dei media negli Usa è molto diffuso). Da quella dei fondatori dipende solo il 25% delle entrate registrate nel bilancio di eservizio. Per il resto la redazione no profit si regge in piedi da sola, anche con le proprie attività.

Il fatturato lo fanno collaborazioni con altri media, che in alcuni casi vengono pagate (in particolare quelle con le televisioni o le radio). Poi, appunto, la vendita di dati e report, con costi che variano a seconda del cliente. Più bassi per il singolo giornalista, più alti per l’azienda. Ai committenti, ProPublica vende la qualità del lavoro (i suoi redattori sono quasi sempre i maggiori esperti sui rispettivi settori di competenza) e un marchio che viene associato all’informazione di qualità e indipendente.

Perché la tendenza ormai è chiara a tutti. Ne parlano da mesi nelle scuole di giornalismo e recentemente il New York Times ha consacrato la collaborazione tra giornali e aziende come un modello che sta emergendo e si sta consolidando. Possibile farlo senza rinunciare all’indipendenza? ProPublica dimostra di sì.


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