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Tutte le sfide parallele di Stefano Parisi e Beppe Sala

Stefano Parisi

La campagna elettorale per l’elezione del sindaco di Milano ha dimostrato di contenere energie potenziali per contribuire in termini significativi all’evoluzione del quadro politico nazionale verso un modello di alternanza tra schieramenti differenti che, nei diversi ruoli, mantengano comportamenti costruttivi e si qualifichino per i contenuti.

L’antiberlusconismo di ieri e l’antirenzismo di oggi sono le facce della stessa medaglia di un atteggiamento politico che ha come obiettivo solamente quello di sconfiggere (se possibile distruggere) l’avversario senza preoccuparsi molto nè della costruzione della propria identità politica né delle conseguenze per il Paese. Le sorti di Sala, sindaco della capitale economica d’Italia e di Parisi, possibile “rifondatore” dell’area liberal-popolare (ma anche leader dell’opposizione in consiglio comunale) non sono direttamente intrecciate fra loro ma se  ottenessero buoni risultati ne deriverebbe un valore aggiunto per entrambi e si rafforzerebbe un quadro politico nazionale di ritorno alla normalità dove le aggregazioni  che si contendono il governo sono a guida moderata.

Sala, che impersona la “sinistra di governo”, deve dimostrare di essere davvero l’uomo del fare attento ai valori della solidarietà ma ben consapevole che per distribuire la ricchezza bisogna produrla. Passata la campagna elettorale sarà giudicato dal mantenimento degli impegni (non demagogici) assunti, a partire dalla ristrutturazione delle 10.000 case popolari inagibili che potrebbero essere così assegnate, e dall’innalzamento della soglia di reddito al di sotto della quale scatta l’esonero dall’addizionale Irpef. Sono spese da finanziare per cui non è facile trovare soluzioni immediate.

Sul tema delle case popolari la sanatoria per gli abusivi va maneggiata con molta cautela per evitare che si traduca in un incoraggiamento a proseguire nelle occupazione abusive, che aggiungerebbero al danno la beffa. La stessa decisione di trasferire una parte dei profughi affidati al comune di Milano in una palazzina accanto all’area ex-EXPO, sia pur dettata da un’emergenza reale, non può sottacere il rischio che la zona diventi un enorme centro di rifugio incontrollato che comprometterebbe gli importanti progetti di insediamento di attività di eccellenza promossi dallo stesso Governo.

Sulle spalle di Sala sono caduti anche gli effetti di alcune decisioni della passata Giunta, come la gestione della linea 4 della metropolitana, la cui trasparenza è stata messa in discussione da Raffaele Cantone, e l’annullamento del bando per la costruzione delle moschee. Quest’ultimo aspetto è particolarmente delicato. Più che un tema amministrativo è insieme una questione di politica estera e di sicurezza nazionale. Il Partito Democratico di Milano ha di fatto privilegiato i rapporti con il Caim, un’associazione islamica legata al Qatar e non lontana dai “Fratelli Mussulmani”, che ha simpatizzato apertamente con il governo di Erdogan per il “contro colpo di stato”. La stessa consigliera comunale di fede musulmana eletta nelle liste Pd, Sumaya Abdel Qader, appartiene a questo gruppo anche se e stata costretta a prendere le distanze dalle dichiarazioni irricevibili di Davide Piccardo, il presidente del Caim. Di fatto, la rappresentanza del mondo islamico, che è molto articolato e all’interno del quale vi sono interlocutori molto più attendibili, rischia di essere consegnata ad un gruppo di minoranza  ben organizzato legato ad interessi e realtà quantomeno estranei a quelli del nostro paese. Su questo argomento Stefano Parisi ha avanzato alcune proposte che Sala dovrebbe prendere seriamente in considerazione per gestire questa materia d’intesa con l’ opposizione e, soprattutto, nel quadro di regole definite a livello nazionale.

La vicenda milanese dimostra anche che, quando le forze politiche tradizionali tornano a fare politica, i movimenti di protesta come i 5 stelle, che pure sembrano oggi vicini alla legittima conquista della guida del Paese, vengono fortemente ridimensionati. D’altra parte a Milano il confronto tra  maggioranza e opposizione è trasparente, non ha nulla a che fare con l’aborrito “partito della nazione” né può dar adito al sospetto di “inciuci”, termine assai sgradevole coniato dalla suburra politica romana.

Parallelamente il progetto di Parisi è tanto difficile quanto necessario se si vuole costruire, nell’interesse del Paese, una forza moderata e democratica, espressione di una base sociale moderna e pragmatica, ancorata ai valori del merito e della responsabilità, che non rifugge l’impegno della solidarietà ma che non accetta le venga imposta attraverso una pressione fiscale insopportabile. Questa realtà, che oggi viene definita come liberal-popolare, è fatta in buona parte di un ceto medio che si è gravemente impoverito e che chiede una politica che dica no alla pura protesta e che sia capace di  individuare soluzioni equilibrate e concrete ai problemi aperti.

Non si tratta tanto di federare un arco di forze che va da Alfano a Salvini, ma di costruire un progetto che potrà avere successo solo se sarà sostenuto dal voto dei cittadini. La stessa Lega deve decidere se scegliere fino in fondo la “deriva lepenista”, alternativa al ruolo degli stessi dirigenti leghisti che amministrano grandi regioni come Lombardia e Veneto, o ritrovare una identità di governo ritornando a discutere di progetti concreti.

Del resto i mal di pancia di numerosi dirigenti di Forza Italia erano prevedibili per una forza politica che dalla sua nascita ha avuto come dominus indiscusso Berlusconi  che non si è mai posto il problema di costruire né una vera strategia né una vero partito capace di reggersi sulle proprie gambe. C’è da augurarsi che Parisi abbia successo perché la nascita di una realtà politica moderata credibile e alternativa ad una sinistra di governo risponde agli interessi italiani.


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