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Tutte le bufale dei pro e dei contro le Olimpiadi 2024 a Roma

Giovanni Malagò

Il rifiuto di Virginia Raggi di incontrare Giovanni Malagò è la metafora del fallimento della strategia comunicativa di Roma 2024. Almeno nel senso in cui il rapporto tra le istituzioni, tradizionale salvagente dei programmi più controversi, è stato sconfitto dall’immaginario collettivo. Come l’UKIP per la Brexit, il movimento di Beppe Grillo ha potuto bocciare le Olimpiadi perché la narrazione negativa su costi astronomici e colate di cemento ha prevalso su quella positiva dei benefici e delle ricadute.

Se pochi hanno compreso (e ancor meno creduto) che i bassi costi del progetto passavano per la riqualificazione forse è anche perché il censimento delle strutture sportive esistenti a Roma doveva essere presentato il 27 settembre, a giochi abbondantemente fatti. O perché, per fare un caso specifico, digitando “stadio Flaminio” non salta fuori alcuna immagine di come sarebbe stato nel 2024. Insomma, le cose sono state dette al CIO e al governo saltando a pie’ pari i romani, il cui proverbiale cinismo è diventato così un alleato di quanti vedono nella capitale solo un irrecuperabile centro di malaffare.

Un importante contributo all’affermarsi di questa narrazione l’ha dato la stampa rinunciando al doveroso “fact checking” delle affermazioni dei due schieramenti. L’esempio più eclatante è quello del miliardo di euro delle Olimpiadi del 1960 che ancora graverebbe sul debito di Roma, pari a circa l’8-9% dell’enorme debito della capitale. La sindaca Raggi lo cita almeno dal 28 agosto, ripresa dai giornali senza alcuna verifica.

Nell’appassionata conferenza stampa seguita al gran rifiuto, Malagò ha replicato che la cifra era esagerata: troppo tardi. Sarebbe bastato leggere la relazione presentata il 5 aprile 2016 alla Camera dei Deputati dalla commissaria al debito di Roma, Silvia Scozzese, per scoprire che la cifra è riferita al complesso degli espropri dal 1950 al 1990 e che il collegamento alle olimpiadi era stato fatto dal deputato PD Fabio Melilli. Per i più pigri, peraltro, sarebbe bastato leggere l’articolo apparso pochi giorni dopo su Italia Oggi, nel quale la Scozzese diceva chiaramente che il miliardo si riferiva a espropri «per realizzare lo Sdo (Sistema direzionale orientale, peraltro neppure iniziato) e altre infrastrutture». Ma niente da fare. I dati, pur disponibili, non sono mai entrati nel dibattito pubblico. Il risultato è che oggi quell’inesistente miliardo di debiti del 1960 è diventato realtà nella percezione pubblica, l’unico luogo che conta in politica.

Altrettanto vale per lo studio della Oxford University (per la precisione, della sua Said Business School) citato dalla sindaca nella conferenza stampa per dimostrare che dal 1960 a oggi tutte le olimpiadi estive ed invernali hanno sfondato i preventivi. Chi si fosse preso la briga di consultare lo studio originale avrebbe però notato che i ricercatori dichiarano di aver analizzato solo parte delle 30 olimpiadi tenute nell’arco di tempo. Tra quelle per le quali mancano i dati c’è appunto Roma; anzi, dalla tabella a p. 8 mancano anche le corrispondenti olimpiadi invernali di Squaw Valley. Lo studio, insomma, inizia in realtà dal 1964. In più, esso non misura costi e benefici delle infrastrutture (Roma utilizza da 56 anni l’aeroporto di Fiumicino e i sottopassaggi lungo le mura e il Tevere realizzati per le olimpiadi …) ma solo quello delle attività sportive in senso stretto. Pur riconoscendo che l’investimento in infrastrutture non sportive rappresenta il costo maggiore di un’olimpiade, gli autori non ne valutano dunque i benefici permanenti. Quanti romani ne erano consapevoli?

Di converso, la valutazione economica del febbraio 2016 ha trovato poco spazio nel dibattito, forse per la minor notorietà del “brand” CEIS-Tor Vergata rispetto a quello Oxford in un paese che resta provinciale. Ma non si può escludere che la sua assenza sul sito universitario – dove bisogna azzeccare la chiave di ricerca “giochi olimpici” anziché “olimpiade” – ne abbia sminuita un poco l’autorevolezza.

Non v’è dubbio che gli oppositori del progetto hanno avuto vita facile nel costruire la narrazione negativa sull’incapacità di Roma a gestire grandi progetti. Dagli scandali dei mondiali di nuoto a Mafia Capitale, dai ritardi della Metro C alla lentissima realizzazione del nuovo centro congressi all’EUR (la “Nuvola” di Fuksas), dai problemi dell’ATAC a quelli dell’AMA, la condizione attuale della più grande città italiana è da anni sulla prima pagina dei giornali e si è tradotta nella sfiducia verso il suo ceto politico. Persino l’Assemblea Capitolina era stata chiamata a esprimersi sulle olimpiadi senza aver visto il dossier che sarebbe stato presentato al CIO: un atto di fede che aveva alimentato timori di un nuovo sacco di Roma e spinto i radicali a chiedere di sottoporre la proposta a referendum.

Proprio per questo la strategia istituzionale si è trasformata in boomerang, almeno nella misura in cui non è stata affiancata da un lavoro capillare sul territorio, presentando il progetto nei municipi, nelle associazioni sportive, nelle periferie, in tutte le realtà nelle quali erano previste (o anche solo annunciate) ricadute positive. Le affissioni in città e gli adesivi sul trasporto pubblico avrebbero potuto illustrare i numeri dei benefici attesi. Tutto questo avrebbe potuto sfociare nel referendum, non più osteggiato ma trasformato in plebiscito a favore delle olimpiadi. Questo avrebbe tra l’altro evitato la possibilità che l’elezione del sindaco si trasformasse essa stessa in referendum, obbligando il vincitore a tenere conto della volontà popolare certificata dal responso elettorale, cosa ben diversa dai sondaggi.

Nulla di tutto questo è accaduto. Il treno è passato. Nel bene e nel male, Roma dovrà immaginare il proprio futuro a breve-medio termine senza le olimpiadi. Più che piangere sul latte versato, sarà bene tener conto che nel 2016 non è più possibile fare affidamento su accordi istituzionali, necessariamente opachi, senza coinvolgere il cittadino in una narrativa che possa sentire vera e vicina a sé.

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