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Vi spiego sfide e problemi dell’e-voting e dell’i-voting

Di Emiliana De Blasio

L’articolo di Emiliana De Blasio tratto dall’ultimo numero della rivista Formiche

Uno dei dati più evidenti delle consultazioni politiche degli ultimi anni è quello relativo alla disaffezione elettorale; la curva dell’astensionismo mostra infatti una crescita costante, sia nelle elezioni politiche generali sia (in misura maggiore) nelle elezioni amministrative. Il dato – in misura variabile e con modalità sociali diverse – riguarda l’intera Unione europea. I giovani, in particolare, sono individuati come il cluster – il gruppo sociale – con il tasso più alto di astensionismo. Molti commentatori producono una sovrapposizione logica fra astensionismo e apatia politica che è, in realtà, una forzatura concettuale. Molto spesso il rifiuto per la politica dei partiti nasconde nuove e alternative forme di impegno sociale e politico, dall’adesione a movimenti all’impegno nelle diverse declinazioni della cittadinanza attiva. Resta tuttavia vero il dato relativo alla crisi di legittimità dei cosiddetti corpi intermedi e la connessa sfiducia verso la partecipazione elettorale, spesso considerata inutile, inefficace o puramente rituale.

Da più parti si è avanzata l’ipotesi che il voto elettronico potrebbe attenuare l’astensionismo. In realtà, non esiste alcuna evidenza; esiste invece un’evidenza contraria, quella relativa al caso norvegese. Dopo aver adottato il voto elettronico attraverso Internet nel 2011 e nel 2013, infatti, nel 2014 la Norvegia ha deciso di chiudere la sperimentazione perché non appariva alcuna crescita nella partecipazione al voto ma anche perché non vi erano sufficienti garanzie di segretezza della volontà dell’elettore.

È utile ricordare che l’espressione “voto elettronico” viene comunemente usata per indicare diverse modalità che riguardano sia la dimensione tecnologica (uso di una macchina o di un terminale, di smart-card o token) sia la modalità sociale di espressione della preferenza elettorale (al seggio o da casa). Una prima necessaria distinzione, quindi, è quella fra e-voting, il voto esercitato al seggio attraverso un apparato elettronico, e i-voting, il voto esercitato attraverso Internet e quindi fruibile da casa o in mobilità. Nel primo caso, il sistema più usato al mondo è quello basato sulla tecnologia Dre (Direct recording electronic system), in pratica un computer con il quale è possibile votare su una scheda mostrata a video. Spesso l’elettore ha la possibilità di stampare la scheda (una sorta di ricevuta del voto) come accade in diversi stati degli Usa. I sistemi Dre hanno inoltre il vantaggio di essere facilmente utilizzabili anche dalle persone diversamente abili. Questo tipo di voto elettronico al seggio può naturalmente essere realizzato con altri dispositivi; dalle vecchie schede perforate (ancora in uso in alcuni stati americani) alla scansione ottica di una scheda votata a mano. L’i-voting costituisce, invece, una modalità semplificata per l’esercizio del voto ed è principalmente a questo modo di votare che si riferiscono quelli che individuano nel voto elettronico uno strumento per l’attenuazione dell’astensionismo. L’accesso è garantito da una smart card o da un token, che permette di identificare in maniera univoca l’utente; la procedura permette di votare, in teoria, da qualunque luogo in cui ci sia una connessione a Internet.

Sull’i-voting (più ancora che sull’e-voting) si appuntano molte critiche. Possiamo individuare tre ordini di problemi. Il primo riguarda l’affidabilità tecnologica; il secondo è – per l’Italia ma non solo – di natura giuridica; il terzo concerne la dimensione sociale.

Dal punto di vista tecnologico, l’i-voting presenta una serie di problemi: il software, per esempio, dovrebbe essere open source (mentre invece in molti casi si usano sistemi proprietari); non sempre esistono possibilità certe di verifica di malfunzionamenti nonostante l’esistenza di protocolli di protezione multilivello; l’eventuale verifica è possibile solo a specialisti e non a comuni cittadini, elemento che renderebbe il voto non universalmente verificabile. Su quest’ultimo punto – e siamo così già entrati nella dimensione giuridica – fa scuola una sentenza del 2009 della Corte Costituzionale tedesca che affermava, non a caso, che i cittadini devono poter verificare il voto in maniera affidabile e senza alcuna conoscenza specialistica. Per l’Italia – dove pure sono state effettuate sperimentazioni, la più ampia delle quali è stata quella realizzata in oltre 12mila sezioni in occasione delle politiche del 2006 – esiste anche un vincolo costituzionale: il voto deve essere personale e segreto, come recita l’articolo 48. Nell’i-voting, il necessario ricorso a smart card, token o anche con eventuali implementazioni dello Spid (il sistema unico per l’identità digitale) rende teoricamente possibile risalire all’identità del votante. Infine, la dimensione sociale: la percezione di debolezza del sistema (non importa se reale o presunta) rischierebbe di determinare persino un’ulteriore distanza fra voto ed elettori, a dispetto delle migliori intenzioni.

Sono tuttavia molti i Paesi che usano o hanno usato in forma sperimentale o stanno progettando l’uso dell’e-voting (per esempio, Brasile, Usa, Olanda) o dell’i-voting (per esempio, la Svizzera, il Canada e l’India, che usa un sistema ibrido). Fra i tanti, comunque, spiccano il caso norvegese, che rappresenta un argomento a favore dei contrari al voto elettronico, e quello estone, usato invece dai fautori dei sistemi di i-voting.

Resta il fatto, comunque, che l’adozione del voto elettronico (e-voting o anche i-voting) non sembra essere connessa con la crescita della partecipazione elettorale. Che una leggera crescita possa – forse – avvenire come elemento di curiosità è ovviamente possibile ma questo non implica una relazione di causalità fra voto elettronico e partecipazione elettorale. Correlation is not causation, come ricordiamo sempre nelle nostre aule accademiche. La politica farebbe bene a ricordarlo e, magari, a cercare di rinnovarsi e aprirsi alla partecipazione: se i giovani non partecipano al voto è perché spesso i partiti sono oligarchici e non rispondono ai bisogni delle persone. Se non cambiano questi aspetti, qualunque innovazione tecnologica non potrà che essere maquillage istituzionale e niente di più.

Emiliana De Blasio (Docente di Open government presso l’Università Luiss e di e-government presso l’Università Sciences-Po di Parigi, vice direttrice del Centre for media and democratic innovations della Luiss)

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