I terroristi di Isis continuano a diffondere sui loro social media plateali esecuzioni di prigionieri inermi, ma la realtà è ben diversa. Purtroppo non perché le atrocità che i terroristi sistematicamente offrono al mondo siano simulate, ma perché l’attività dei loro boia è ben più intensa di quanto loro stessi osino mostrare.
Sono ormai due anni che i nostri network rilanciano le brutalità commesse dai fanatici islamisti e diffuse sui loro siti e social media. Ma queste sono solo la punta dell’iceberg: i terroristi applicano una precisa strategia di censura pubblicizzando solo il 30% delle loro esecuzioni.
Di norma, i soldati catturati vengono esposti al pubblico e portati in trionfo come usavano fare gli imperatori romani coi prigionieri presi vivi nelle campagne militari di due millenni fa. Ogni rappresentazione segue un rituale e una scenografia ancora più curata se, invece di comuni soldati irakeni o siriani, si tratta di militari russi o occidentali. In questi casi non vengono risparmiati elaborati costumi per i prigionieri e per i boia, scenografie a base di gabbie, spade, roghi e bandiere nere. A volte interi teatri come quello di Palmira sono stati destinati alla solenne celebrazione di queste orrende atrocità.
Ma se le vittime sono inermi civili, allora i fanatici di Isis li ammazzano per le spicce e senza l’intervento di alcuna fotocamera. In questo modo sono state sterminate un grande numero di famiglie appartenenti alle tribù yazide e arabo-sunnite nella provincia di al-Anbar (l’area in territorio iracheno ad Ovest di Bagdad) perché sospettate di aiutare e dare rifugio alle milizie Sahwa che combattono il Califfato, o anche solo perché accusate di non essersi apertamente schierate in favore di quest’ultimo. Qui è in corso una nascosta pulizia etnica che non risparmia donne, vecchi e bambini. Queste stragi ci sono note solo grazie ad alcuni rapporti delle Nazioni Unite sulle atrocità commesse in Iraq.
Comprendere le ragioni di di questa censura selettiva può permettere di individuare una strategia efficace per dissuadere coloro che aspirano ad arruolarsi nelle file dello Stato Islamico.
Le nostre strutture di intelligence rimangono vaghe sui metodi che stanno adottando per contrastare la campagna mediatica di arruolamento dei terroristi, ma è evidente – a volte anche dichiarato – che sottolineare le contraddizioni fra la propaganda ufficiale Isis e le atrocità da loro realmente commesse costituisce parte integrante di questa strategia.
È possibile che, per dissuadere potenziali reclute, risulti più efficace evidenziare le esecuzioni mantenute segrete piuttosto che limitarsi a ricordare che l’assassinio di mussulmani è in contrasto coi precetti dell’Islam.
Delle quasi duemila vittime cadute per mano dei boia e mostrate in mondovisione da giugno 2014 all’anno scorso, il 98% erano combattenti o fiancheggiatori diretti dei nemici di Isis. È quindi logico dedurne che gli strateghi della propaganda terroristica ritengano che le esecuzioni di nemici attivi del Califfato possano motivare efficacemente coloro che già sono sensibili alla loro aberrante ideologia incentrata su un islam combattente. Gli psicologi comportamentisti, infatti, hanno abbondantemente dimostrato che si possano scatenare in singoli individui – ed a volte intere popolazioni – istinti omicidi verso gruppi sociali o etnici che vengano efficacemente dipinti come minaccia e causa delle loro stesse sfortune. Per noi europei è immediato il riferimento alla popolazione tedesca degli anni ’30 e ’40.
Per questo, è risultato controproducente il video “Benvenuti nella terra dell’Isis” prodotto dal Dipartimento di Stato Usa per scoraggiare i reclutamenti. Infatti, il governo americano pensava di dimostrare che i fanatici non erano i difensori dell’Islam ma, al contrario, assassini di musulmani. Però non ha capito l’autogol che commetteva rilanciando proprio le immagini prodotte dalla propaganda terroristica stessa. C’è voluto quasi un anno perché il Dipartimento di Stato ammettesse di fatto l’errore.
È interessante osservare che solo il 30% delle vittime individuate nei rapporti delle Nazioni Unite hanno avuto un’eco nella propaganda del Califfato. In particolare, vengono assassinati di nascosto i civili Yazidi che costituiscono il gruppo di gran lunga più vasto. Seguono, in questa triste classifica, i familiari dei combattenti anti Isis di etnia prevalentemente arabo-sunnita. Infine le donne e i bambini.
Le motivazioni della censura sono però diverse per ogni gruppo: gli Yazidi – che adorano un Dio diverso da quello musulmano – e gli sciiti – che interpretano il Corano in modo considerato eretico – potrebbero comunque scatenare l’odio nei seguaci dell’Islam ortodosso culturalmente più deboli e socialmente più sensibili. Invece, pubblicizzare lo sterminio delle famiglie di combattenti anti Isis di etnia sunnita-araba può seriamente danneggiare il Califfato. Infatti, già nel primo volume di Dabiq, il rotocalco propagandistico online, Isis ha pubblicamente condannato l’omicidio di arabi sunniti. Per lo stesso motivo, ai fanatici non conviene assolutamente mostrare i massacri di donne (seppure in buona parte militari irachene) e bambini perché contrari ai principi Coranici che starebbero a fondamento della propria propaganda.
È vero che, attualmente, il tasso di reclutamento Isis è sceso di quasi il 90%, ma le cause principali non vanno ricercate nell’efficacia relativa della propaganda e contropropaganda ma nelle sconfitte militari da quando Putin ha deciso di intervenire massicciamente in Siria e, soprattutto, nella crisi finanziaria in cui è costretto lo Stato Islamico da quando i russi – seguiti finalmente dagli occidentali – hanno capito che per seccare le radici del Califfato occorreva colpire le sue fonti di finanziamento connesse principalmente con il contrabbando di petrolio e derivati.
Ma questo non deve farci abbassare la guardia. In futuro, per eliminare questo incubo, sarà decisiva una più profonda strategia di comunicazione volta a mostrare le atrocità che il Califfato non ha intenzione di propagandare. Questa campagna mediatica deve essere coordinata con una attenta analisi delle motivazioni che hanno portato prima all’arruolamento e poi alla fuga i pochi disertori che sono riusciti a rientrare nella civiltà.