Ogni singolo Paese ha le sue specificità. E la politica è giusto che tenga in debito conto questo fatto fondamentale. Non è possibile paragonare le recenti vicende statunitensi, che hanno portato alla vittoria Donald Trump, con quanto accade in Europa senza finire nella banalità e nella superficialità. E, anche nel nostro continente, è in sostanza impossibile sovrapporre automaticamente personaggi e movimenti che si muovono sulla stessa linea d’onda ma appartengono a nazioni differenti.
Ciò nondimeno non si può mai fare a meno di cogliere le linee di tendenza generali che comunque influenzano reciprocamente le relazioni private e pubbliche tra i movimenti di opinione.
Perciò è quanto mai importante leggere il dibattito sul centrodestra italiano, che sta dominando le pagine dei giornali in questi giorni, tenendo presente il forte vento conservatore che soffia ovunque nel mondo. Non farlo sarebbe poco sensato.
La grande novità della nostra epoca, infatti, non è costituita da quanto hanno in comune leader così diversi come Donald Trump, Theresa May, Marine Le Pen o Vladimir Putin, ma da una serie minima d’idee e valori di riferimento che spingono essi stessi e i loro elettori a definirsi non di sinistra.
Oggi il centrodestra ha cambiato faccia e ha scoperto di esistere come mentalità di massa. La crisi finanziaria del pianeta, il terrorismo e l’immigrazione hanno mutato radicalmente la logica comune, e i cittadini chiedono e vogliono risposte immediate ed efficaci che siano innanzitutto serie, forti e conservatrici.
Ecco perché anche il dibattito italiano sul futuro del centrodestra non può muoversi ancora come se l’orologio fosse fermo al berlusconismo e nel frattempo non sia cambiato nulla.
Il primo dato importante, appunto per questo, in una valutazione realista è la diffusione storica decisiva che hanno le cosiddette idee antiprogressiste.
La destra oggi non interpreta più un malcontento populista e anti politico, ma un’esigenza di comunità, un desiderio generale di ripartire dal particolare, una voglia di localizzare la democrazia e la partecipazione politica, un’opposizione frontale al potere antidemocratico di élite e interessi finanziari globali. Il mito progressista che problemi grandi necessitino solo di grandi soluzioni è stato sostituito con l’opposta persuasione che nel piccolo si vive, e nel piccolo si devono risolvere i problemi, perché la sovranità non è globale ma nazionale.
Questo è il parametro valoriale della destra, e questo metro di valutazione della realtà oggi non può essere tenuto fuori da chi pensa di organizzare, come diciamo in Italia, i moderati.
La lezione statunitense e inglese, Trump e la Brexit, specificano che il centrodestra non è una variante misurata della sinistra, ma si fonda su un punto di partenza opposto e contrario, sorretto dal principio che ogni comunità è umana solo se prima riesce a essere se stessa, che la libertà economica è possibile solo se la politica garantisce ordine e limiti. Rifondare il centrodestra vuol dire, insomma, ripartire dall’unità della destra e del centro, uscendo dal pingpong populisti contro individualisti.
In questo senso la querelle tra Stefano Parisi e Matteo Salvini assume un sapore politico molto singolare. Se, infatti, è legittimo pensare che il centrodestra non possa essere ridotto unicamente al determinismo della destra, è anche vero però che è incomprensibile come si possa immaginare di essere competitivi contro il M5S e il PD, pensando – chissà – in futuro di allearsi con Renzi e magari lasciando fuori quella parte che rappresenta in questo periodo il fattore identitario e propulsivo più forte della destra internazionale.
Ai cittadini è chiaro che il frazionamento interno a tali forze politiche non riguarda né qualcosa di razionale, né qualcosa di ideologico, ma solo le esigenze irrilevanti dei personalismi degli uni e degli altri. E questo proprio non va.
L’intervento di Silvio Berlusconi a Radio anch’io, se interpretato in questa direzione, è semplicemente una constatazione di buon senso: le divisioni nel centrodestra non soltanto fanno perdere, ma non hanno senso alcuno.
L’unità di popolari e conservatori è, quindi, una necessità, anche se incontra delle difficoltà altrettanto oggettive. La prima è l’assenza di una vera e propria leadership unitaria. Se però Salvini vuole essere la guida di tutti, deve saper rappresentare tutti, e quindi non avere paura di perdere voti dalla sua parte. E se da par suo Parisi vuole guidare il centrodestra deve obbligatoriamente farsi carico della destra e non indicarla come un corpo estraneo.
Ecco così che la lezione di Trump può diventare istruttiva per l’Italia, dimostrando che vincono le idee incarnate dai personaggi, e non i politici che litigano tra loro. Il programma, infatti, è derubricabile quando ci sono leader forti e manca una visione comune di fondo negli elettori; il contrario esatto di quanto accade adesso che viviamo in un’epoca storica in cui tutti praticamente sono di destra: i cittadini, il senso comune, gli equilibri internazionali, e tra un pochino perfino la sinistra.
L’avvenire del popolarismo italiano, in buona sostanza, consiste nel tenere unito il centrodestra, rendendolo alternativo al centrosinistra, mantenendo nella democrazia il conservatorismo, coniugando l’identità comunitaria con sviluppo economico ed Europa.
In fin dei conti, avere un’autostrada libera e aperta su cui sfrecciare, restando invece fermi nell’area di servizio a decidere chi guida meglio la macchina, è la sola cosa stupida da farsi e l’unico modo per perdere una partita già vinta.