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Vi spiego pregi e difetti della riforma costituzionale

Alessandro Forlani

Nel dibattito sulla riforma costituzionale, le argomentazioni di carattere politico, legate alla competizione contingente, sembrano tuttora prevalere su quelle di merito che dovrebbero ritenersi decisive, ai fini della formazione del giudizio del cittadino-elettore.  Maggiore rilievo dovrebbero assumere, invece, la qualità delle innovazioni e delle modifiche, la loro idoneità a rendere l’assetto istituzionale più fluido e funzionale, a garantire stabilità di governo e tempestività dei processi legislativi, a dipanare sovrapposizioni e incomprensioni sulle competenze, ad eliminare enti e posizioni superflui, a consolidare rappresentatività e partecipazione democratica e garantire le minoranze, coniugando tali esigenze con l’effettiva capacità decisionale degli organi a tale ruolo preposti.

A questo fine trovo, talora, in qualche misura, fuorviante l’insistenza che si riscontra in alcuni interventi dei fautori del NO, in ordine ad una supposta involuzione autoritaria e oligarchica che potrebbe derivare dalla riforma, nella sua interazione con la legge elettorale approvata dal Parlamento, nel corso della vigente legislatura e conosciuta con l’appellativo di “Italicum”. È vero che il premio di maggioranza attribuito a seguito del ballottaggio potrebbe offrire ad una minoranza, anche piuttosto contenuta, in termini di percentuale di consenso, una maggioranza “blindata” alla Camera dei Deputati, unica assemblea legislativa investita del potere di accordare la fiducia al Governo, ma questa possibilità non appare, a mio giudizio, sufficiente per accreditare il rischio di una tendenziale regressione del sistema democratico.    Il potere-dovere di esprimersi sulla fiducia all’esecutivo, in capo ad una sola camera, ci allinea alla massima parte delle altre democrazie parlamentari e garantisce quella stabilità e omogeneità della maggioranza di governo che era sovente pregiudicata dal doppio voto ora vigente, da parte di due camere formate attraverso sistemi elettorali diversi dai quali possono derivare  rapporti di forza non coincidenti.

Con il rapporto fiduciario limitato a una sola camera si perfeziona la garanzia della “certezza del vincitore” e si riduce la complessità e vischiosità di una eccessiva negoziazione e il rischio di compromesso tra tendenze e culture eterogenee.  Ho scritto “si riduce” e non “si elimina”, a ragion veduta.  Perché, in realtà, la tendenza alla frammentazione e proliferazione di gruppi e partiti può compromettere anche la maggioranza più blindata.   Ricordando alcuni precedenti di particolare “mobilità” dello scenario nazionale, mi sembra poco realistico quel rischio di deriva autoritaria e di concentrazione del potere evocato da alcuni fautori del NO, in relazione alla combinazione tra riforma costituzionale e Italicum.

Ma qualche accorgimento resta comunque opportuno.  Sia che vinca il SI’, quanto in caso contrario, si renderà opportuna una correzione di questa nuova legge elettorale, non ancora sperimentata.    In ordine a due aspetti, in particolare:   il premio di maggioranza, per il quale dovrebbe essere fissato un quorum piuttosto elevato, rinunciando al ballottaggio e, in secondo luogo, l’assegnazione del premio stesso alla coalizione e non al singolo partito, qualora il quorum stesso venga raggiunto da un’alleanza formalmente costituita e dichiarata.    Tali aggiustamenti garantirebbero un governo ampiamente rappresentativo della volontà degli elettori e vanificherebbero, per quanto possibile, i timori rispetto a un eventuale potere di pochi o dell’uomo solo al comando.

La formazione delle coalizioni – che per definizione garantiscono una pluralità di culture e sensibilità – sarebbe infatti incentivata, favorendo una tendenza più rispondente alla nostra tradizione, nella quale governi a più voci, nei momenti migliori, insieme alle inevitabili schermaglie, hanno prodotto anche crescita democratica e sviluppo.

Rispetto al superamento del bicameralismo paritario, anche sotto il profilo del procedimento legislativo, il sistema vigente di doppia approvazione delle leggi, in identico testo, era considerato da tempo una causa dei ritardi nell’adozione di riforme e di interventi che, a volte, proprio dalla tempestività traggono la loro efficacia nella vita dei cittadini.

Le cosiddette “navette” tra le due camere potevano, però, in alcuni casi, garantire una fase necessaria di riconsiderazione, di  “raffreddamento”, di ulteriore riflessione e migliorare  certe decisioni assunte da una singola camera, sotto la spinta delle passioni, della demagogia, delle pressioni mediatiche o di categoria.

Nella precedente riforma, quella approvata dal Parlamento nella quattordicesima legislatura (2001-2006), poi bocciata dal referendum del 2006, erano state differenziate le competenze legislative (al Senato era stata lasciata la “concorrente”), consentendo tuttavia a ciascuna camera di “richiamare” provvedimenti di competenza dell’altra.

La nuova riforma prevede l’approvazione delle leggi da parte della Camera, consentendo al Senato l’esame e il voto di tipo consultivo, fatte salve alcune specifiche materie sulle quali continueranno a decidere, in posizione di parità, Camera e Senato.

Al Senato sono inoltre attribuite particolari funzioni, in quanto camera delle regioni e un ruolo di controllo sulle attività della pubblica amministrazione e sulle politiche pubbliche e di verifica dell’attuazione delle leggi dello Stato.

Il Senato approva ancora, insieme alla Camera, le leggi costituzionali e anche leggi ordinarie che regolino materie molto delicate, con riferimento, in particolare, alle autonomie locali, alla legislazione comunitaria e agli istituti di democrazia diretta.  Per le altre leggi è prevista l’approvazione da parte della sola Camera, cui segue comunque la trasmissione del provvedimento al Senato che ha la facoltà di esaminarlo e deliberare su eventuali modifiche.  Poi la Camera esprime il voto definitivo.

Sono previste procedure particolari, nel caso in cui il Senato modifichi, a maggioranza qualificata, una legge della Camera che, in ragione dell’interesse nazionale, intervenga in materia riservata alla competenza regionale, in quanto la Camera stessa, in questo caso, potrà disattendere gli emendamenti del Senato solo a maggioranza assoluta dei propri componenti.  Anche per il voto sul bilancio e sul rendiconto consuntivo, presentati dal Governo, è prevista una procedura formale specifica, rispetto ai termini per l’adozione di modifiche da parte del Senato, che si differenzia da quella stabilita per gli altri disegni di legge.

La “chambre de réflexion” e di raffreddamento sembra dunque persistere, sia pure in modo diverso dal sistema attualmente vigente, così come persistono le “navette”, che gli innovatori tendevano, in questi anni, a valutare negativamente, ma i tempi delle procedure legislative dovrebbero comunque risultare più celeri, non rendendosi più necessarie le doppie approvazioni in identico testo, che, in astratto, avrebbero potuto provocare anche un infinito ping-pong tra Montecitorio e Palazzo Madama.

Una certa perplessità suscitano, tuttavia, le cavillose modalità previste dalla nuova disciplina.  Le disposizioni contenute negli artt. 70-74 appaiono a molti osservatori complicate e farraginose, con troppi distinguo e troppe specificità procedurali, con il rischio di una difficoltà di interpretazione, nella pratica applicazione.   Sotto questo profilo si sarebbe resa necessaria una più attenta ponderazione, durante i passaggi parlamentari.

Un’obiezione ricorrente riguarda la mancata elezione dei senatori, benché la formazione della camera delle regioni, in base a elezioni di secondo grado, cioè da parte degli enti locali, sia prevista da ordinamenti ormai consolidati, come quello francese e quello tedesco.  La legge ordinaria dovrebbe prevedere una forma di partecipazione dei cittadini all’individuazione dei futuri senatori nelle persone di  singoli consiglieri regionali e di singoli sindaci, anche se, tecnicamente, non sarà facile.  Va ricordato, tuttavia, che, in ogni caso, i consiglieri regionali sono tra le figure istituzionali più rappresentative, elette con la preferenza unica e anche i sindaci sono nominalmente scelti dai cittadini.    Quindi non ravviso elementi di deficit democratico, né tanto meno di scandalo, se la camera delle regioni sarà formata da rappresentanti elettivi degli enti territoriali.    E, in ogni caso, questa scelta (100 senatori, anziché 315) realizza sensibilmente la tanto auspicata riduzione dei parlamentari (e delle indennità).

La revisione del Titolo V (così come era stato modificato dalla riforma del 2001), consolida la preminenza dell’interesse nazionale e riconduce allo Stato centrale competenze ed interventi che devono necessariamente essere valutati, in base alle esigenze della generalità dei consociati, superando i particolarismi territoriali e il sistema della competenza concorrente, che aveva dato luogo, soprattutto dopo la menzionata riforma, a una intensa e dannosa conflittualità di attribuzione tra lo Stato stesso e le Regioni.  La “clausola di supremazia”, in particolare, tutela l’interesse nazionale e l’unità della Repubblica.

Anche le limitazioni poste alla decretazione d’urgenza, antica abitudine assai contestata e discutibile, sul piano del metodo democratico e della garanzia delle prerogative parlamentari, sembrano apprezzabili e necessarie. Sotto il profilo dello snellimento e della funzionalità delle procedure (e della certezza dei tempi), può  accogliersi con favore la possibilità di corsia preferenziale per l’esame parlamentare di disegni di legge ritenuti prioritari per l’attuazione del programma di governo.

Comprensibile la soppressione del Cnel, in una prospettiva di semplificazione e superamento di organismi ormai obsoleti e anacronistici, ponderando costi e benefici, alla luce dell’esperienza concreta e dell’evoluzione economico-sociale.

Non è stato invece inserito l’istituto della sfiducia costruttiva, contenuto nella riforma dal 2005, non confermata da referendum.Uno strumento assai efficace per garantire la stabilità dei governi e scongiurare le crisi al buio, precludendo il “licenziamento” degli stessi, senza la previsione di una soluzione alternativa ed evitando lunghi periodi di interregno, segnati da estenuanti giochi delle parti e contrattazioni, come è accaduto più volte nella nostra storia nazionale. Forse i nuovi costituenti non ne hanno rilevato la necessità, alla luce della nuova legge elettorale, che garantisce al partito vincente e al premier una maggioranza blindata alla Camera dei deputati, unica assemblea investita del potere di votare la fiducia, secondo la riforma costituzionale.  Ma, come la storia recente insegna (vedi governo Berlusconi 2008-2011), anche le maggioranze blindate si possono disfare…


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