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Perché Minenna e Raineri gongolano sulla vicenda Raggi-Marra-Romeo-Muraro

Marcello Minenna

Carla Romana Raineri starà gongolando. “Apres moi le deluge“. Ed, in effetti, il diluvio c’è stato. Dopo essere stata “dimissionata” dalla banda (parola dell’assessore Paolo Berdini) dei “quattro amici al bar”, i suoi detrattori sono caduti uno ad uno. Come birilli. Virginia Raggi indagata insieme a Salvatore Romeo e Raffaele Marra. Quest’ultimo, com’è noto, finito nelle patrie galere. Del sodalizio rimane solo Daniele Frongia, che, tuttavia, aveva dovuto abbandonare la postazione di vice sindaco, per la semplice poltrona di “assessore allo sport”. Incarico, tutt’altro che disprezzabile, visto il gravoso impegno – non solo economico-finanziario, ma politico – connesso alla realizzazione del nuovo stadio per la Roma.

La magistrata, rientrata a Milano, ha visto, pertanto, consumarsi la sua vendetta. Che, com’è noto, è un piatto che va servito freddo. Restano ancora da definire i suoi problematici rapporti con Raffaele Cantone, il presidente dell’ANAC, che, in qualche modo, aveva contribuito alla sua defenestrazione. Ma il più è fatto. Alla fine i suoi consigli, per quanto non richiesti ed osteggiati – si pensi solo all’allert nei confronti dell’assessore Paola Muraro – si sono dimostrati consoni alla bisogna. Del resto non c’era da dubitarne. Il confronto era tra un personaggio di peso, con una grande esperienza alle spalle, ed un gruppo di sprovveduti. Persone che avevano vinto il terno al lotto della politica, senza avere le basi necessarie. Oltretutto dotati di quel pizzico di arroganza in più di cui sono lastricate le vie che portano all’inferno.

Giusta ricompensa, quindi, per i sacrifici passati. La Raineri era stata coinvolta nella crisi capitolina dal Prefetto Tronca. Che l’aveva convinta a trasferirsi, armi e bagagli, per dare una mano ad una città tristemente avviata lunga la strada della decadenza. Spirito di servizio. Non era stato facile abbandonare un posto prestigioso, quale la Corte d’appello, per buttarsi nella mischia di quella specie di suburra, ch’era diventato il Comune di Roma. Un incarico che doveva essere a termine, se non fosse stato per le insistenze di Marcello Minenna, potente assessore al bilancio per poche settimane. Il quale aveva subordinato la sua accettazione alla presenza di una personalità, che doveva bilanciare la scarsa esperienza della nuova giunta. Operazione rischiosa, come dimostreranno le dimissioni a catena, che la sua fuoriuscita determinerà.

Mantenere fede a quell’impegno, non era stato facile. Si trattava di convincere, con la necessaria rapidità, un CSM riottoso. Che non vedeva di buon occhio l’utilizzo, in quella posizione, di un magistrato. Quindi rinunciare a concorrere per posti ancora più prestigiosi. Ma alla fine ce l’aveva fatta. Sennonché nel momento giusto per tirare un sospiro di sollievo, ecco la polemica sul suo emolumento. Troppo elevato: sbraitavano i “cinque stelle”, avvolti nel manto della loro posizione pauperista. Come se tra le tante incombenze, il nuovo Capo di gabinetto del Comune di Roma avesse dovuto anche accettare una decurtazione della sua retribuzione originaria. E questo nello stesso momento in cui un funzionario del Comune, Salvatore Romeo, il dispensatore di polizze assicuratrici, faceva un triplo salto mortale. Con una retribuzione che da 40 mila passava a 120 mila euro. Stranezze del mondo pentastellato.

Oggi le tessere del mosaico si ricompongono in un disegno più razionale. E chi è stato ingiustamente colpito può guardare, con il necessario distacco, alle vicende postume che stanno avvelenando il Comune di Roma. Uscendone a testa alta. Una soddisfazione che forse non ripaga interamente. Ma che dà la necessaria tranquillità. Restano naturalmente le macerie. Ma esse non sono altro che le conseguenze dell’approssimazione dei nuovi apprendisti stregoni. Nel passaggio dalla facile protesta alla difficile proposta. Le cui conseguenze, purtroppo, ricadranno sull’intera cittadinanza.

Se si hanno a cuore i destini di Roma è, tuttavia, necessario che la stessa opposizione batta un colpo. Non si può lasciare questo compito, esclusivamente, alla magistratura. Che, per sua natura, non può che essere destruens. La funzione dei giudici, quando esercitata con i limiti indicati dal presidente Mattarella, è, infatti, il controllo della legalità. Non certo costruire il futuro. Questo impegno, come insegnano da ultime le vicende di “mani pulite”, spetta ai rappresentanti del popolo. Che, invece, nel caso romano, sono silenti spettatori. Si facciano quindi avanti. L’Assemblea capitolina ha da poco approvato un bilancio di cui non è dato conoscere le poste relative. Eppure un’analisi attenta di quei dati fotografa i mali antichi e recenti di una città, mai al passo con i tempi. Da quella diagnosi si possono trarre gli elementi utili per una possibile terapia.

L’ostacolo è forse rappresentato da un mal riposto sentimento identitario? Non diciamo sciocchezze. Se l’incendio divampa, non si guarda alla casacca dei soccorritori. In quei casi esistono solo uomini di buona volontà, capaci di appianare divergenze e spegnere le fiamme. C’è forse traccia di quest’impegno nell’Assemblea capitolina? Non sembrerebbe. Si spera solo che la giustizia faccia il suo corso. Per fare cosa? En attenttand Godot. Che non è certo il miglior viatico.



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