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Perché la guerra a Isis non sarà breve

È arrivato dopo qualche ora, ma è arrivato. Come sappiamo, in un comunicato l’Isis ha poi rivendicato l’attacco di Manchester: la strage più grave nel Regno Unito dalle bombe di Londra del 2005. “Un nostro soldato” (askar): così l’Isis rivendicava l’attentato degli Champs Elysées, e così aveva fatto con gli ultimi fatti di sangue. Soldato non è chahid (martire), né mujahid (combattente del jihad). È qualcosa di meno, un semplice simpatizzante ma pur sempre molto pericoloso.

Da un po’ di tempo l’Isis fa distinzioni. Per gli adepti del califfo è sempre più complicato organizzare vere e proprie cellule che ricevono ordini da fuori. In Siria ed Iraq le cose vanno male e la struttura di comando e controllo del vertice jihadista non è più in grado di seguire le filiere e organizzare vere e proprie squadre di terroristi. Ciò non significa che sia stata distrutta, ma solo che stia lottando per la sua sopravvivenza. La propaganda – una delle sue armi migliori – è ancora in piedi e resta forte il richiamo ai “soldati perduti del jihad” da parte della narrazione califfale sui social media, nelle carceri, nelle sale di preghiera. La differenza ora è che questi lupi solitari devono organizzarsi da sé, scegliersi gli obiettivi, colpire con mezzi propri, usare anche armi atipiche, come le auto o i camion lanciati sulla folla.

La guerra condotta dalle intelligence occidentali sta dando i suoi frutti: molte cellule distrutte e numerosi attentati evitati. Il killer di Londra sapeva di essere sotto mira e si è sbrigato da solo. Appena una rete jihadista viene creata, diviene vulnerabile alle attività di polizia, ora molto più attente. Le comunità musulmane d’Europa iniziano a parlare, a dare indicazioni sugli estremisti. Non sapremo mai quanto è stato evitato da questo tipo di lavoro, quante azioni non sono state portate a termine: non è uso delle intelligence annunciare i propri progressi, né scoprire i propri risultati. Giustamente. Certo, la sensazione è che l’altra sera a Manchester qualcosa sia andato storto ma spesso le critiche alle forze dell’ordine sembrano ingiuste o inappropriate: molto è migliorato e migliorerà in futuro. Solo ci si deve fidare: non ci sarà controprova.

Dobbiamo però sapere che alla fine dell’Isis non corrisponderà la cessazione di ogni pericolo: nasceranno sigle nuove, com’è accaduto fino ad ora, nuovi raggruppamenti magari virtuali. La rete offre infinite possibilità di nuocere, lo sappiamo. Il radicalismo e l’antagonismo sono una delle cifre del nostro tempo: estremizzazione delle azioni e del pensiero, in un quadro di globalizzazione debole, cioè che non ha mantenuto tutte le sue promesse. La rabbia resta presente, il rancore sociale anche. L’espandersi del fenomeno delle fake news è significativo: nessuno controlla più ciò che legge, tutto appare vero o verosimile. Anche la stampa più seria vacilla: molte notizie vengono stampate senza la dovuta cautela, senza controllarle, per poi scoprire che sono false. In questo mare agitato e malmostoso, proliferano agevolmente estremismi di ogni tipo e anche il fenomeno jihadista.

Quest’ultimo si giova soprattutto del clima di odio seminato in questi anni. Il tentativo di saldare assieme islam e terrorismo ha funzionato in parte. Era ciò che l’Isis voleva: creare una generale antipatia nei confronti dei musulmani, un clima di sospetto e di paure. Molti politici europei sono divenuti strumenti di tale strategia, ripetendo a iosa accuse e lanciando strali contro le collettività musulmane e contro l’islam stesso. La spaccatura che si crea apre infinite possibilità per “soldati”, che giustificano il loro operato con l’odio reciproco. Così delinquenti diventano “soldati” di una causa perduta a causa dell’odio: “voglio uscire ad ucciderne un po’”. Tale clima va riassorbito in un contesto più ragionevole di convivenza. Il che significa rispetto della legge e dialogo sociale. Solo un clima di simpatia e collaborazione ci proteggerà e sarà la nostra migliore garanzia di sicurezza.



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