Giornalisti e intellettuali italiani hanno fatto finora molta fatica a interpretare il fenomeno Trump. Nessuno nel nostro Paese ne aveva immaginato la possibile vittoria alle primarie repubblicane, figurarsi la vittoria alle elezioni contro la democratica Hillary Clinton, e adesso in pochi riescono a spiegarsi – e quindi a spiegare a lettori e telespettatori – perché l’ex immobiliarista sbarcato alla Casa Bianca sembri combinarne una dopo l’altra ma mantenga comunque un robusto sostegno nella sua base elettorale. Analizzando la realtà sine ira ac studio, si intuisce invece che l’andamento dell’economia contribuisce ancora a illustrare la parabola del presidente repubblicano.
Il Wall Street Journal, per esempio, ha appena fatto notare che in questo primo scorcio di presidenza Trump la disoccupazione è diminuita più rapidamente proprio negli “swing states”, cioè in quegli Stati americani che nel 2012 votarono per il presidente democratico Barack Obama e che nel 2016 hanno cambiato fronte votando per il repubblicano Trump. Parliamo di Ohio, Michigan, Florida, Iowa, Pennsylvania e Wisconsin. Il quotidiano di proprietà di Rupert Murdoch, che pure non ha mancato di bacchettare Trump per il suo programma di politica economica, osserva che “il tasso mediano di disoccupazione di questi stati è sceso più velocemente nell’anno in corso rispetto a quanto non sia sceso il tasso mediano nazionale”. Il tasso di disoccupazione degli stati neo-trumpiani era al 3,9% a luglio e partiva dal 5% di dicembre. Il tasso mediano nazionale, invece, è sceso al 4,1% a luglio e partiva dal 4,7% a dicembre. Gli elettori degli “swing states” staranno apprezzando. Eppure, osserva il Wall Street Journal, Trump non può dire che siano le sue scelte in materia di tasse e infrastrutture ad aver rilanciato l’occupazione dell’America profonda, non foss’altro perché quelle scelte sono state annunciate ma non ancora compiute. Il quotidiano finanziario non sottovaluta però il fatto che la Casa Bianca abbia già nominato in alcuni posti chiave delle persone che stanno smantellando norme e regolamenti in eccesso che frenano gli spiriti animali; e sottolinea pure che l’andamento positivo del mercato borsistico dopo le elezioni presidenziali abbia alimentato la fiducia di consumatori e business, favorendo l’occupazione. Ma il fattore più rilevante in questa fase, specie per gli Stati del Midwest americano che hanno una forte base manifatturiera, è l’indebolimento del dollaro che rende le esportazioni di beni americani più convenienti. “Il WSJ Dollar Index, che misura l’andamento del dollaro rispetto a un paniere di altre grandi valute, è sceso di oltre il 7% nel 2017. Le esportazioni sono cresciute del 6% nei primi sei mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2016”. Un cambiamento importante rispetto a tutto il periodo 2014-2016, in cui l’export americano ha balbettato mentre il dollaro si rafforzava.
“Mi piace un dollaro che non sia troppo forte”, aveva detto a luglio il presidente Trump in una intervista rilasciata proprio al Wall Street Journal. “Con un dollaro forte, accadono tante cose brutte”. A indebolire il biglietto verde quindi c’è un po’ di moral suasion della Casa Bianca, un po’ di sollievo degli investitori che si aspettavano chiusure più radicali verso Paesi partner come il Messico (e quindi ora stanno favorendo una rivalutazione del peso), e infine una parte della debolezza del dollaro è dovuta alla stabilità politico-economica in aumento nel resto del mondo, a partire dall’Europa. Il nostro Vecchio continente inizia finalmente a uscire da un lungo tunnel di scossoni fiscali e politici – un tunnel ufficialmente imboccato nel maggio 2010 quando il governo greco corresse al rialzo la stima del proprio deficit dei conti pubblici (fino al 13,6% del pil) seminando il panico nei partner e nei mercati – e perciò la sua valuta si apprezza rispetto al dollaro. Quest’ultimo, da inizio anno, si è deprezzato di circa l’11 per cento rispetto all’euro.
Negli swing states che hanno votato per Trump, dunque, si brinda almeno un po’ al dollaro debole. Più diversificate saranno le reazioni a Jackson Hole, l’esclusivo consesso dei banchieri centrali che si tiene ogni anno nello stato americano del Wyoming e che inizia giovedì 24 agosto. Ospite di casa sarà Janet Yellen, governatrice della Federal reserve, alla quale un dollaro un po’ meno pesante potrebbe facilitare il compito di raggiungere (finalmente) un livello di inflazione più vicino al 2%. Più incerta la reazione di Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, alle prese col difficile compito di avviare la stretta monetaria e la fine del Quantitative easing senza però creare paure e scompensi eccessivi nei mercati. Un euro che si rafforzasse oltremodo potrebbe, fra le altre cose, frenare quelle esportazioni su cui si è basata tanta parte della ripresa europea, e allontanare di nuovo l’obiettivo – peraltro ancora lontano dall’essere raggiunto – di un livello di inflazione che sia “sotto, ma vicino, al 2%”. Non a caso la maggior parte degli analisti ritiene che proprio l’andamento del dollaro sarà uno dei fattori che potrebbe spingere Draghi a non affrettare l’uscita dalle politiche monetarie non convenzionali di sostegno all’economia. Il banchiere europeo con passaporto italiano, in questo modo, causerebbe qualche settimana in più di grattacapi alla rigorosa leadership tedesca e concederebbe qualche attimo di respiro fiscale in più alla super-indebitata Italia. Facciamo un brindisi fugace, anche noi, al dollaro debole?