Dice Mike Allen, informatissimo giornalista politico americano, che è una delle storia “più intriganti” che esce dalla Casa Bianca: il “Committee to Save America”, ossia il nome che un gruppo di influenti membri dell’amministrazione e potenti consiglieri della presidenza si sono dati. Si considerano un’organizzazione informale che ha come scopo quello di riallineare Donald Trump nel solco più tradizionale di un presidente americano.
I NORMALIZZATORI
Su queste colonne sono stati chiamati fin dall’inizio delle Era-Trump “normalizzatori”, coloro cioè che hanno combattuto (e combattono) una guerra sulle visioni politiche interne per allontanare il Prez da quella deriva populista rivoluzionaria che ogni tre per due rischia di prendere lo Studio Ovale. Stante ai fatti, sembrano in vantaggio su chi vorrebbe il presidente un nazionalista fino all’isolazionismo. Un esempio? La strategia afghana: Trump con un discorso in prime-time (il primo della sua presidenza) ha cercato di farcire il rinnovato impegno, e rinforzo, statunitense in Afghanistan del claim nazionalista-elettorale “America First”, ma è difficile scostare la nuova vision da quella che le due amministrazioni Obama che lo hanno preceduto si portano dietro dalla Guerra al Terrore di George W. Bush. Un pragmatismo reso necessario da un coinvolgimento dal quale è quasi impossibile tirarsi indietro: la guerra afghana va male per gli americani, ma ritirarsi mentre si perde significa lasciare un vuoto che gruppi jihadisti come lo Stato islamico, o al Qaeda, o i ribelli talebani, potrebbero facilmente riempire (trasformando di nuovo il paese nella roccaforte del terrorismo internazionale).
I GENERALI
Uno dei membri dei membri del Comitato informale dei normalizzatori ha detto ad Allen: “Se vedi uno con un coltello che sta per uccidere un altro, non ci mangi su prima di cercare di afferrare il coltello e fermarlo” (nel paradigma, ovviamente, è Trump che ha un coltello e sta per uccidere l’America per come la conosciamo). Ma chi sono quesi normalizzatori? I Generali per esempio, un gruppo nutrito che all’interno dell’amministrazione ricopre ruoli di prim’ordine: comandano il Pentagono anche politicamente con il segretario James Mattis, danno l’impulso a tutte le pratiche estere e di sicurezza nazionale con il Consigliere HR McMaster, guidano il gabinetto della Casa Bianca con John Kelly, ricoprono altri incarichi meno appariscenti ma di primissimo piano e, come il capo della forze armate Joseph Dunford, hanno sempre più spesso l’incarico di curare le relazioni internazionali con gli alleati.
I NEWYORKESI
Con loro poi ci sono i Newyorkers, guidati dagli Ivankner, Jared Kushner e Ivanka Trump, consiglieri e membri ristrettissimi (e prediletti) della First Family: con loro i consiglieri che vengono dall’élite repubblicana-aperta della finanza newyorkese, come Gary Cohn (papabile nuovo capo della Fed) che storcono il naso davanti alle evocazioni di una guerra commerciale contro la Cina o alle decisioni più spinte come il ritiro dal protocollo sul Clima di Parigi. Con loro la potente Dina Powell, vice di McMaster e link con il comparto militare della pseudo organizzazione e s’allinea anche il segretario al Tesoro Steve Mnuchin (finanziere newyorkese arrivato all’apice di Goldman Sachs, ossia della finanza globale). Con loro anche il vice presidente Mike Pence, in una posizione meno dichiarata e formale. I “globalists” li chiamava con disprezzo il loro più grosso nemico, Steve Bannon. Ora Bannon è fuori (prossimamente toccherà al consulente sul Medio Oriente Sebastian Gorka, uno degli ultimi strambi consiglieri rimasti a corte), e l’esclusione del più importante stratega di Trump dal suo ruolo, s’abbina con la strategia internazionalista afghana – il dossier è stato sottoposto a revisione, allungata per settimane perché Bannon e il suo clan isolazionista si opponeva alla linea pragmatica dei generali che chiedevano che l’America dimostrasse il suo impegno globale anche con un rafforzamento militare in Afghanistan per aiutare il governo che gli americani hanno costruito nel difendersi dai gruppi jihadisti e ribelli.
L’ESTABLISHMENT DEL PARTITO
Anche l’establishment del partito, per primo il leader del Senato Mitch McConnell, si fa avanti per questo impegno che generali e moderati sentono il dover di seguire per temperare la furia istintiva dell’America First. È proprio istinto, e Trump l’ha spiegato in uno dei passaggi chiave del discorso sull’Afghanistan (che è diventato una cartina tornasole del momento che la Casa Bianca sta vivendo): “Il mio istinto originario era quello di uscire, e storicamente mi piace seguire i miei istinti. Ma in tutta la mia vita ho sentito dire che le decisioni sono molto diverse quando si siede dietro la scrivania dello Studio Ovale. In altre parole, quando sei presidente degli Stati Uniti”. I normalizzatori dicono di credere nel presidente, ma vogliono imporre la propria supervisione nell’azione di governo e nello Studio Ovale. Non dispiacciono all’altro lato della politica washingtonians: il democratico Jeh Johnson, ex segretario per la Homeland Security che ha preceduto nel ruolo Kelly (l’incarico prima di essere nominato capo di gabinetto), ha detto a “The Week” della ABC che lui in ogni modo cercherà di far restare in carica il “mio amico” Mattis o Kelly, perché sono fondamentali per Washington.
SOLO ALLA CASA BIANCA
Secondo Associated Press c’è un patto segreto tra Mattis e Kelly: hanno giurato che comunque vadano le cose, “uno di loro debba rimanere dentro per tenere d’occhio gli ordini che escono rapidamente dalla Casa Bianca”. C’è da aspettarsi che adesso che è fuori ed è tornato a ringhiare da Breitbart, Bannon si concentri contro quelli del comitato fittizio con attacchi anche ad alzo zero – e non c’è occasione migliore della nuova strategia per l’Afghanistan, vista come la vittoria dei globalisti. Mosse per rafforzare le visioni d’istinto di Trump. Ma è pure vero che per il presidente il rischio è di rimanere isolato, soprattutto se il procuratore speciale Robert Mueller, che il dipartimento di Giustizia ha incaricato per seguire il Russiagate, dovesse trovare qualcosa di veramente compromettente su di lui.