Una ragazza al capezzale della madre ancor giovane che ha improvvisamente ed inspiegabilmente perso la memoria. È l’inizio dell’estate 1982. La nazionale italiana di calcio è impegnata nella conquista del terzo titolo mondiale. L’ospedale nel quale è ricoverata la donna non è estraneo all’evento che coinvolge tutto il Paese. A fronte dell’epica calcistica che si dispiega in Spagna sotto il vigile ed entusiasta occhio del presidente Pertini, la figlia dell’inferma passa giorno e notte accanto a lei in compagnia di una fotografia scattata negli anni Sessanta e pubblicata da una rivista, nella quale, a loro insaputa, vengono immortalati i quattro componenti della sua famiglia sulla mitica Vespa. Il padre che tiene davanti il figlio maggiore di sei anni, la mamma sul sedile di dietro trattiene la piccola di soli due anni, ora donna, che l’assiste nel suo calvario. È l’immagine di un’Italia che stava crescendo, nella sua capitale “morale” ed economica, quella Milano che prometteva sviluppi sensazionali, in parte mantenuti, ed era l’emblema di una nazione che voleva risollevarsi.
Una fotografia che riassume i sogni, le speranze, le aspettative di una nazione ancora sana prima che su di essa si addensassero le nubi della crisi sociale, dell’emergere del disagio, dell’esplosione del terrorismo. Con quella immagine tra le mani, la ragazza, nella più completa solitudine, tenta di rianimare la madre: il padre è morto quando era nel pieno vigore della vita e mentre vedeva realizzarsi ciò per cui aveva scelto di “esiliarsi” tanto lontano dal suo paesello meridionale; il fratello, introverso fin dalla nascita, dopo una precoce parentesi mistica che lo aveva portato in seminario, è scomparso (salvo una fugace apparizione) nell’arcipelago dei gruppuscoli che praticano la lotta armata. In ansia per salute della madre, la ventiduenne amorosa figlia, tra disperazione e rimpianti, tenta di rianimare quella donna con le sue parole che attingono al pozzo dei ricordi: a tratti sembra capire e subito dopo si abbandona, quasi consapevolmente, come se l’esistenza le pesasse al punto di volersi sottrarre al cammino che potrebbe ancora percorrere. La fotografia è l’elemento fondamentale. Uno “scatto” che dà modo a chi le parla con amore di ripercorrere con lei, sua figlia superstite e testimone ad un tempo, delle disavventure della sua famiglia e le tappe più importanti di una vicenda corale che s’intreccia con quella della comunità nazionale.
È un romanzo, ma è anche un saggio questo libro coinvolgente ed appassionato di Giuseppe Lupo, Gli anni del nostro incanto (Marsilio, pp.156,€ 16,00) nel quale il racconto di un’Italia spensierata, ma consapevole del suo destino, nel pieno del miracolo economico, segnata da una vitalità insospettabile nell’immediato dopoguerra, cullata dalle canzoni di Sanremo e attratta da tutti i gadget della modernità usati con oculatezza, risparmiatrice ed incantata dalla prospettiva di tornare ad essere protagonista in un mondo in rapida crescita, si sposa con uno spirito civico abbastanza diffuso incline a privilegiare il “piccolo mondo antico” con uno sguardo alle grandi conquiste come l’approdo del primo uomo sulla luna.
La strage di piazza Fontana mette fine alla “favola”. E la narrazione della giovane Vittoria che ripercorre la strada della “sua” Italia e di quella della famiglia nella quale è nata, si fa triste: è come se la notte calata sulla nazione, simboleggiata dall’austerity in conseguenza della crisi petrolifera, si fosse portata via tutte le utopie e gli entusiasmi che suo padre e sua madre avevano vissuto con l’ardore della loro giovane età fino a trasmetterle ai parenti rimasti a casa, nelle loro isole di insoddisfazione e di travagli nel Mezzogiorno d’Italia, dove in un bel giorno d’estate, arrivano con la loro Cinquecento, simbolo di benessere e finalmente di appagamento delle ambizioni coltivate negli anni della fatica, mai disperando.
Lupo evoca generazioni dissoltesi tra le contraddizioni della modernità. Lo fa con la levità di una scrittura poetica che si adatta alla situazione che descrive. Il suo stile sobrio, levigato, essenziale ben si adatta al racconto delle illusioni e delle inquietudini della prima metà degli anni del dopoguerra, senza sottrarsi all’immersione del conflitto generazionale che ha avuto effetti dirompenti i cui esiti si sono trascinati fino ai nostri giorni.
Possiamo dire che quell’Italia rappresentata da Lupo era di gran lunga migliore di quella attuale? È così, senza alcun dubbio. L’Italia che emerge da quella fotografia familiare di un giorno d’aprile degli anni Sessanta, quando gli amori erano semplici come i dolori e la vita aveva il senso che ognuno riteneva di darle