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Perché il discorso di Trump all’Onu svela tante ipocrisie europee

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sarà pure un “deplorevole”, come pensa in fondo tanta parte dell’opinione pubblica e dell’intellighenzia europea, ma per analizzare il suo esordio di ieri all’Assemblea generale delle Nazioni Unite occorrerebbe un po’ di onestà intellettuale. Mettere in fila gli argomenti usati da Trump ieri, farlo sine ira ac studio, astraendosi dalla pettinatura dell’oratore, dalla sua gestualità e dal suo curriculum vitae, sarebbe sufficiente per arrivare a una conclusione: chiunque avesse pronunciato le parole che ieri Trump ha detto dal palco dell’Onu, purtroppo, non sarebbe andato a genio alla maggioranza delle élite europee. E non perché Trump abbia detto chissà quali castronerie, ma perché oramai gli europei hanno un’idea di “ordine internazionale liberale” che assomiglia sempre più a un ordine internazionale “liberal” che ad altro. Ecco di seguito una lista sommaria degli argomenti utilizzati dal presidente americano (qui il discorso integrale) che non potevano non irritare i Macron e i macroniani.

LO STATO NAZIONE VIVE E LOTTA CON NOI

Uno dei fili conduttori dell’intervento di Trump è stata la sua insistenza sul ruolo ancora vitale dello Stato nazione in questo inizio di XXI secolo. Molti osservatori europei, ormai da mesi, tentano di schiacciare questa posizione del presidente americano – condivisa dalla maggioranza dell’establishment repubblicano – nella stessa categoria dei neo-nazionalismi europei. Errore blu, perché il patriottismo americano c’entra poco o nulla con la nostra più funerea tradizione del nazionalismo “sangue e suolo”. Perfino Steve Bannon, ex chief strategist di Trump accusato di collusione coi suprematisti bianchi, ha sempre sostenuto che nella sua idea di “populismo e nazionalismo economico” c’è spazio per tutte le etnie, le fedi religiose, le preferenze sessuali, e che a fare da discrimine c’è soltanto la cittadinanza americana. Ma lasciamo da parte il sulfureo Bannon. Ieri Trump ha citato piuttosto il presidente Harry Truman – colui che i nazisti, coi loro alleati giapponesi ancora in armi, li mandò nella pattumiera della storia – per ricordare che “il successo delle Nazioni Unite dipende dalla forza indipendente e individuale dei suoi membri”. Gli europei, impegnati da decenni nella costruzione della prima forma di governance post-vestfaliana (l’Unione europea), potranno pure storcere il naso, ma sarebbe miope da parte loro caricaturizzare l’approccio di Trump e della maggioranza degli Stati nazione del pianeta.

CHIAREZZA MORALE SULLA NATURA AUTORITARIA DI ALCUNI REGIMI POLITICI

Trump ha inoltre additato i “rogue regimes” che “non solo sostengono il terrorismo ma minacciano anche le altre nazioni e i loro popoli con le armi più distruttive che l’umanità abbia mai conosciuto”. Il presidente americano ha nominato quindi alcuni dei regimi più spietati del pianeta. Ha additato la Corea del Nord e il Venezuela, per esempio, dove i rispettivi regimi fanno soffrire la fame ai propri sudditi, poi gli ayatollah iraniani che sottomettono la popolazione impedendole una fioritura culturale ed economica. Stesso approccio per Cuba che non si vedrà liberata dalle sanzioni economiche “finché non farà le riforme per il suo popolo”. La distinzione tra “regime” e “popolo”, su cui Trump ha insistito in tutti questi casi, è sacrosanta. E lo è ogni volta che – al di là di ogni ragionevole dubbio – un governo veda derivare il suo potere dal solo esercizio della violenza e della repressione sui suoi governati. È senz’altro questo il caso di Corea del Nord, Iran, Venezuela e Cuba, tutte dittature, seppure differenti fra loro. Che Trump non abbia nominato altre dittature è purtroppo ovvio. L’idealismo senza limiti non esiste nelle cancellerie mondiali. Però un idealismo “a singhiozzo” è sempre meglio di un realismo a tutto campo che, come nel caso del presidente francese Emmanuel Macron, è disposto a santificare un accordo come il “deal nucleare” con l’Iran sorvolando sulla condizione di milioni di cittadini oppressi dall’attuale regime di Teheran.

LE CRITICHE ALL’ONU NON SONO PECCATO DI LESA MAESTÀ

Se le Nazioni Unite non sono un feticcio ma uno strumento della governance mondiale, sarà bene che anche loro non siano al riparo da critiche. Specie se queste sono palesemente fondate. Ieri Trump ha fatto propria la posizione di tanti attivisti dei diritti umani, quando ha detto che “troppo spesso il focus di questa organizzazione non è stato sui risultati, ma sulle procedure e sulla burocrazia. In alcuni casi gli Stati membri hanno tentato di sovvertire i fini nobili delle Nazioni Unite, facendo deragliare i meccanismi che questi fini dovevano garantirli. Per esempio, è estremamente imbarazzante per le Nazioni Unite il fatto che alcuni governi con un curriculum pessimo sui diritti umani siedano nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu”. Soltanto un esagitato o un fautore della realpolitik più estrema può pensare che sia ragionevole farsi dettare la linea sui diritti umani dal Venezuela o dall’Arabia Saudita, come purtroppo è successo in questi anni nel mondo onusiano.

UNIVERSALISMO SUI DIRITTI DEMOCRATICI, MA NON SULLE EMISSIONI DI CO2

Gli osservatori europei non potevano non dolersi del fatto che Trump non abbia citato l’accordo di Parigi sul clima, accordo dal quale Washington ha annunciato di voler uscire. Il “transnazionalismo” che piace tanto ai leader europei, infatti, assume toni “universalistici” quando si parla di emissioni di gas serra, ma poi questi toni li smette subito quando si tratta di diritti davvero universali come quello alla libertà di pensiero e di espressione. Così Macron ieri ha strappato facilmente gli applausi dei sempre più “verdi” europei quando ha detto che gli accordi sul clima non si toccano, ma allo stesso tempo Trump ha fatto inarcare più di un sopracciglio quando ha spiegato che “i regimi oppressivi non possono durare per sempre. Verrà il giorno in cui le persone fronteggeranno con una scelta: continueranno sulla strada che porta alla povertà, alla violenza e al terrore? Oppure il popolo iraniano potrà tornare alle radici orgogliose della propria nazione, centro di irradiazione della civilizzazione e della cultura mondiale, con le persone libere di essere prospere e felici come credono?”. Con tutta l’importanza che possiamo attribuire alle marmitte catalitiche e ai loro derivati, è indubbio che ieri tanti cittadini oppressi del pianeta avranno preferito le parole di Trump. Il quale, intendiamoci, non si è trasformato all’improvviso in un neoconservatore interventista. Ieri il presidente americano, più semplicemente e come ha scritto Sohrab Ahmari su Commentary, “ha segnalato un ritorno alla tradizionale politica estera repubblicana post-Seconda guerra mondiale”.

CHIAMARE “L’ESTREMISMO ISLAMICO” CON NOME E COGNOME

“La lotta al terrorismo” trova d’accordo tutti i leader mondiali e tutti i pensatori del globo. Almeno finché non si specifica di quale terrorismo stiamo parlando. Ieri Trump ha continuato a infrangere un altro tabù caro a tanta parte dell’establishment, specie europeo. Semplicemente chiamando le cose con il loro nome, ricordando che il terrorismo di oggi – quello che colpisce dalle Torri Gemelle alle chiese della Nigeria, dal Bataclan di Parigi alle strade di Israele – affonda le sue radici in una visione, estremistica e distorta quanto vogliamo, della fede islamica. “Tutte le nazioni responsabili devono lavorare assieme per fronteggiare i terroristi e l’estremismo islamico che li ispira”, ha detto Trump. Riecheggiando non le parole di qualche suprematista bianco, ma le riflessioni di migliaia di dissidenti islamici, a partire da Ayaan Hirsi Ali, somala costretta a fuggire prima in Olanda e poi negli Stati Uniti, che ai leader democratici continua a chiedere di prendere di petto “l’ideologia” che è alla base del terrorismo. Soltanto per una mente obnubilata dal politicamente corretto e a digiuno completo di studi storici, infatti, attaccare il fondamentalismo religioso equivale a prendersela con la religione tout court.

Il discorso di Trump è dunque inattaccabile? Ovviamente no. Quel che dà più da pensare, però, è che ormai troppe volte il ditino degli europei si alza minaccioso per la ragione sbagliata.


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