Sarebbe opportuno ora non drammatizzare oltre con parole e comportamenti da parte di tutti i soggetti in campo una situazione come quella del confronto fra governo, azienda e sindacati sul piano industriale e ambientale per il gruppo Ilva e il suo sito ionico, dopo che la Regione Puglia e il Comune di Taranto hanno presentato un ricorso al TAR contro il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 29 settembre scorso con il quale si è stabilito che gli interventi per la bonifica degli impianti si debbano concludere entro il 23 agosto del 2023. In proposito gli enti locali ricorrenti lamentano l’eccessivo protrarsi di tale periodo – che si prolungherebbe in un futuro da molti osservatori percepito come remoto – e di non aver visto accolte alcune loro proposte di modifica del piano ambientale presentato dall’azienda.
Il ministro Calenda allora ha congelato la trattativa con i sindacati, volendo aspettare quanto stabilirà il Tar per farla ripartire. Ora, fermo restando che il soggetto soccombente dinanzi al Tar – governo o enti locali che siano – potrebbe sempre ricorrere al Consiglio di Stato, è sembrata a molti inopportuna l’affermazione secondo la quale i Commissari, in caso di accoglimento del ricorso, dovrebbero spegnere lo stabilimento di Taranto. In proposito è appena il caso di ricordare che esso non venne spento nel funzionamento della sua area a caldo neppure dopo il 26 luglio del 2012 quando il Gip la sottopose a sequestro senza ‘facoltà d’uso’. Così come sarebbe stato opportuno evitare ulteriori dichiarazioni come quelle del Sindaco il quale ha detto che non si accettano ricatti di alcun genere da parte di chicchessia sulla pelle dei Tarantini.
Peraltro il timore pur comprensibile del ministro che a questo punto la cordata Am Investco Italy possa abbandonare la partita può essere mitigato dalla considerazione che, in realtà, il gruppo Arcelor resterà sempre fortemente interessato al gruppo Ilva e soprattutto all’imponente sito di Taranto – che è per capacità la maggiore acciaieria a ciclo integrale d’Europa e la più grande fabbrica manifatturiera d’Italia con i suoi 10.980 addetti diretti – volendo acquisire il controllo di un temibile concorrente come lo stabilimento ionico e integrarlo poi nel suo sistema produttivo europeo.
Del resto anche nella competente direzione della Commissione Europea – che sta esaminando il dossier relativo all’acquisto per verificare che in caso di esito positivo non si realizzino condizioni lesive della concorrenza – sarebbero sorte perplessità circa il piano di bonifica del Siderurgico che nelle previsioni dei potenziali acquirenti verrebbe realizzato, come abbiamo rilevato prima, in un arco temporale di cinque anni, e da concludersi integralmente entro il 23 agosto del 2023, come previsto peraltro dal Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri dello scorso 29 settembre: un periodo molto esteso e protratto in un futuro decisamente lontano, con il rischio di posticipare troppo a lungo nel tempo interventi che, invece, dovrebbero essere anticipati al massimo per lenire una situazione di disagio ambientale della popolazione del capoluogo ionico. E d’altra parte proprio in questa direzione si colloca la decisione sollecitata dal Governo all’azienda di anticipare all’inizio del prossimo anno l’avvio della copertura del più grande dei parchi minerali dell’Ilva.
Le forti perplessità della Commissione sui tempi troppo prolungati per la realizzazione del piano ambientale sono del tutto plausibili e giustificate. Chi scrive infatti ritiene che la sua realizzazione potrebbe e dovrebbe concludersi entro il 31 dicembre del 2019 e non nell’agosto del 2023. Uno sforzo massiccio sotto il profilo operativo per completare quel piano sarebbe necessario a livello impiantistico, ma tecnicamente sarebbe pienamente realizzabile, lavorando h24 per sette giorni la settimana. Il nodo vero allora da sciogliere è quello della disponibilità in termini di cassa delle risorse necessarie per imprimere una fortissima accelerazione al completamento degli interventi di ambientalizzazione dello stabilimento di Taranto. Il gruppo Arcelor, per quanto sia il primo produttore al mondo di acciaio e si presenti patrimonialmente e finanziariamente solido, potrebbe anche non aver programmato nei prossimi due anni un impiego così elevato e anticipato nella sua tempistica di cash flow sul sito ionico: è una ipotesi la nostra niente affatto remota, per cui si potrebbe a questo punto operare a livello governativo perché entri nella Am Investco Italy la Cassa Depositi e Prestiti che già ha fatto parte con una quota significativa della cordata AcciaItalia, risultata soccombente nell’offerta per il gruppo Ilva rispetto a quella di Am investco Italy. E qualora i vertici della CDP ritenessero ora non conveniente tale investimento, sarebbe facile chiedere loro perché invece avessero ritenuto conveniente partecipare all’altra cordata. Del resto la stesso Mittal junior ha dichiarato che sarebbe ben accolta la partecipazione della Cassa.
Ma l’anticipazione del piano ambientale avrebbe significativi riflessi sui livelli occupazionali. Il Siderurgico tarantino dovrebbe attestarsi a sei milioni di tonnellate di acciaio liquido per gli anni di completamento di quel piano – che pertanto dovrebbe essere anticipato – ma ai sei milioni di tonnellate dovrebbero aggiungersi sin dagli inizi del 2018 (e non oltre) almeno 2-2,5 milioni di tonnellate di bramme da portarsi da altri siti per consentire il mantenimento di un livello di produzione complessivo di almeno 8 milioni di tonnellate che consentirebbe il mantenimento degli attuali livelli occupazionali e di larghissima parte dell’indotto.
Vorremo ricordare in proposito che lo stabilimento di Taranto toccò il suo picco produttivo fra il 2004 e il 2008 con il seguente andamento: 7,8 milioni di tonnellate nel 2004, 9,3 milioni nel 2005, 10,2 milioni nel 2006, 9,9 milioni nel 2007, 9,1 milioni nel 2008; ed anche nel 2012 – l’anno che vide il 26 luglio il sequestro giudiziario dell’area a caldo – il sito superò gli 8 milioni di tonnellate. Raggiungere questa soglia consentirebbe di mantenere l’attuale occupazione, che invece – se restasse immutata la tempistica e i livelli produttivi previsti da Arcelor – comporterebbe solo per la fabbrica tarantina 3.311 esuberi che il Governo afferma di voler reimpiegare nella bonifica del territorio lasciandoli in carico all’Amministrazione straordinaria, ma per i quali le risorse a ciò destinate e recuperate dai Riva basterebbero per un periodo limitato, con il rischio di dover rifinanziare di continuo i lavori sino al loro completamento e creando così una grande sacca di lavoratori di fatto assistiti.
Quello in riva allo Ionio, insomma è – e dovrebbe restare – il primo stabilimento siderurgico a ciclo integrale d’Europa, pienamente risanato sotto il profilo ambientale e rilanciato nella sua capacità produttiva, con il rifacimento e la rimessa in esercizio dell’AFO5, il gigantesco Altoforno n.5 che da solo è in grado di produrre il 40% della ghisa dell’intero sito. Ed è nell’interesse dello stesso acquirente riportarlo in marcia in tempi brevi al massimo della sua Pmp-produzione massima possibile, anche per ammortizzare l’investimento elevato che vi sarebbe concentrato nei prossimi due anni. Resterebbe poi, e sempre in primo piano, il problema della decarbonizzazione dei suoi cicli produttivi, mediante l’impiego anche negli attuali altiforni del preridotto di ferro che può essere producibile con impianti ad hoc in loco e con un basso prezzo del gas, o importabile dall’estero dai Paesi che già lo producono purché a prezzi convenienti.
Del resto la storia della privatizzazione dell’Ilva e della sua fabbrica di Taranto ci ricorda che dal 2 maggio del 1995 – giorno di ingresso del management del Gruppo Riva – l’accelerazione impressa alla sua produzione e i ricavi che ne derivarono consentirono all’acquirente di riacquistare entro un triennio le quote che molti istituti bancari creditori della vecchia Ilva avevano girato a capitale nella società al momento del suo trasferimento dall’Iri alla famiglia Riva.
Le eccellenti maestranze tarantine, i quadri dello stabilimento e i suoi dirigenti – e con essi le aziende dell’indotto – se coinvolte in un grande disegno di rilancio accelerato della immensa fabbrica compirebbero ancora una volta il miracolo di rilanciarla nella pienezza della sua capacità competitiva e nell’interesse stesso del Gruppo Arcelor.
Federico Pirro – Università di Bari