Abituati come siamo a discutere di ogni singolo albero, tendiamo a perdere di vista la foresta, la visione d’insieme. È come se l’ossessione per i dettagli, per le nuances, per le sfumature, per le piccole differenze che ci separano da chi ci è più vicino ci impedissero di cogliere l’essenziale, ci facessero dimenticare i legami di fondo, quelli da cui ogni riflessione dovrebbe invece partire.
Dunque, da mesi (e gli ultimi giorni si sono incaricati di rendere l’escalation sempre più visibile) è venuto fuori che un dittatore comunista e psicopatico (ripeto per i distratti: dittatore, comunista, psicopatico) in Corea del Nord dispone di armi nucleari, o almeno così dichiara (purtroppo, credibilmente), aggiungendo alle minacce atti dimostrativi sempre meno sottovalutabili.
Piaccia o no, viene fuori che per anni (i tragici anni obamiani) anche quel dossier è stato dimenticato, non tenuto in adeguata considerazione, lasciato marcire e aggravarsi. E, piaccia o no (di nuovo) è Donald Trump ad avere posto il problema in modo forte, anche cercando di responsabilizzare la “tigre accovacciata” cinese.
Dinanzi a questo quadro, cosa fanno le élites politiche e mediatiche occidentali? Si affrettano a spaccare il capello in quattro, a cercare la pagliuzza nell’occhio di Trump, a sdottoreggiare su cosa il presidente Usa dovrebbe o non dovrebbe dire-pensare-twittare.
È una specie di riflesso condizionato. L’Iran ci minaccia e Trump pone il problema? E noi critichiamo Trump. Lo fa la Corea del Nord? Stesso discorso: processiamo Trump, con tanto di divertissiment (capelli inclusi) per equiparare e mettere sullo stesso piano il dittatore della Corea comunista e il più importante responsabile politico eletto nel mondo libero.
Se troppi nel nostro Occidente commettono questo errore e cadono in questo tic, la nostra malattia dev’essere più grave del previsto. Speriamo sia ancora curabile.