In tempi di grande incertezza politica viene quasi naturale immergersi nelle acque refrigeranti di un galantomismo purtroppo andato, non tanto per assecondare umanissime pulsioni nostalgiche, quanto per ricordare che c’è stato un tempo nel quale della lotta politica erano protagonisti uomini di diversissime tendenze accomunati da una reale ricerca del bene comune. In particolare nel Mezzogiorno d’Italia, dove sembra che la “malabestia” dell’assistenzialismo, per dirla con don Luigi Sturzo (uno dei galantuomini di cui sopra), abbia fatto nuovamente irruzione con l’ultima tornata elettorale. Ed è proprio dal Mezzogiorno, che mai ha vissuto nella ormai lunga stagione repubblicana, lunghi periodi di serenità, che traiamo l’occasione per ricordare tre figure di politici esemplari sotto ogni punto di vista, le cui biografie ce li restituiscono nella loro integrità morale e nel civismo che dimostrarono, al di là delle passioni vissute con lealtà e spirito di abnegazione tanto da segnalarsi come esempi perfino agli avversari. A loro molti altri se ne potrebbero aggiungere, ovviamente, ma gli studi pubblicati ci offrono lo spunto per ricordare in particolare Raffaele De Caro, Araldo di Crollalanza, Alfredo Covelli.
Il primo, al quale ha dedicato uno studio approfondito e documentato Andrea Jelardi (Raffaele De Caro. Deputato e ministro liberale, Ezioni Realtà Sannita, pp.190, € 15), è stato un vero e proprio statista che tanto prima del ventennio fascista, ma soprattutto dopo l’avvento della Repubblica, ha incarnato un’idea talmente alta della politica da diventare riferimento per molte generazioni di cittadini a prescindere dalle appartenenze. Combattente, avvocato di grande valore, liberale autentico e meridionalista tutt’altro che dedito al clientelismo, non esitò a schierarsi dalla parte dei perdenti nel 1924 aderendo, con altri esponenti antifascisti alla secessione dell’Aventino e perdendo il suo scranno parlamentare, pur di restare fedele ai suoi ideali che gli valsero a Benevento e nel Sannio, dove era nato nel 1883, il rispetto perfino dei più estremisti contro i quali, dopo la caduta del regime non soltanto non esercitò azioni di vendetta, ma difese tutti da possibili rappresaglie garantendo con la sua persona per ognuno.
Nel capoluogo sannita esercitò una grande influenza morale prima che politica offrendo una estetica della lotta tra le fazioni a dir poco inedita al punto da guadagnare al suo partito, il Pli del quale divenne presidente dopo la morte di Benedetto Croce, consensi straordinari che contribuirono a lungo a farne un soggetto protagonista della ricostruzione post-bellica. Giovane deputato prima del fascismo, membro della Costituente, sottosegretario e ministro, uomo di partito, patriota innanzitutto interpretò il suo ruolo di politico meridionale avversando tutti i Masanielli che si proponevano per lucrare su disagio di regioni che non avevano beneficiato dell’unificazione statuale, ma avevano tratto motivi di risentimento per come la “questione meridionale” era stata impostata. A tal riguardo, un avversario, davvero poco gentile di De Caro, fu il noto meridionalista e quasi conterraneo dell’esponente liberale, l’irpino Guido Dorso ispirato da una incontenibile faziosità come dimostrano i polemici scritti richiamati da Jelardi.
De Caro fu un pacificatore e un innovatore, tanto nella sua città quanto a livello nazionale. Convinto, perfino che quanto c’era da dare una mano anche all’avversario fascista, non ci si poteva sottrarre per il bene esclusivo della patria. La sua intensa vita politica, davvero ammirevole sotto ogni punto di vista, non poteva che finire in modo: De Caro si spense a Torino nel giugno del 1961 dove si trovava per presiedere la cerimonia di commemorazione del conte Camillo Benso di Cavour. Curioso destino per un liberale che dall’artefice dell’unità nazionale aveva tratto l’ispirazione per diventare, fin dalla più tenera età, ciò che sarebbe stato per tutta la vita.
E alla pacificazione ispirò la sua militanza politica un altro grande meridionale, non a caso, forse, giovane segretario di De Caro quando questi era ministro del primo governo Badoglio: il maggior interprete politico del movimento monarchico italiano, Alfredo Covelli (1914-1996) del quale, qualche tempo fa, Fabio Torriero nel ha brillantemente tratteggiato la figura nel volume Alfredo Covelli. La mia destra (I libri del Borghese, pp.141, euro 16). È la prima biografia dedicata al fondatore e leader del partito monarchico che dalla Costituente alla seconda metà degli anni Settanta ebbe un rilievo notevole nella politica italiana. Un altro meridionale che dovrebbe essere portato ad esempio di questi tempi.
La sua, come spiega Torriero, non fu una battaglia di retroguardia, ma di autentica proposta di un ideale fondato sull’obiettivo del raggiungimento della “pacificazione nazionale” legittimata dal rispetto delle istituzioni mentre chiedeva il rispetto della storia patria senza mettere nulla tra parentesi. Nelle piazze, nel suo partito, in Parlamento, Covelli non ha mai fatto mancare, anche quando il conflitto si faceva più aspro, il riferimento alla concordia che considerava fondamento dello sviluppo e dell’affermazione della coesione sociale, elemento ineludibile, quindi, per la ricostruzione della trama comunitaria della nazione italiana.
In questo senso Covelli ha espresso al meglio una concezione della destra che lui immaginava, fin dalla metà degli Cinquanta, “plurale” ed unita, nel senso che diverse componenti, riconoscendosi in un quadro politico ed istituzionale accettato e condiviso, potessero svolgere una legittima battaglia per costruire un’alternativa al potere centrista che occhieggiava alla sinistra antinazionale. E da uomo di destra, per quanto monarchico, riconosceva nella figura del Presidente della Repubblica il riferimento unitario e ultima istanza di difensore delle istituzioni: “In una assemblea democratica come questa a nessuno può sfuggire la necessità che tutto quello che concerne la vita, la funzione, la condizione del Capo dello Stato (che è il simbolo della nazione, e perciò al di sopra de partiti) debba essere sottratto al gioco politico e alle manovre dei partiti”, disse alla Camera il 27 novembre 1964 nel dibattito sulla procedura seguita per dichiarare l’impedimento del presidente Antonio Segni.
Fu uomo delle istituzioni Covelli che rispettò maniacalmente pur avendo votato, insieme con altri sessantuno Costituenti contro la Carta Costituzionale; fu uomo del Parlamento la cui centralità non mancò mai di sostenere e salvaguardare; fu uomo di parte capace di guardare all’interesse nazionale. E fu anche uomo europeo identificandosi, nelle istituzioni internazionali delle quali fece parte, nel processo di integrazione continentale, senza svendere l’identità nazionale.
Intervenendo alla Camera sul disegno di legge per l’elezione diretta dei deputati italiani al Parlamento europeo, memore delle sue radici, nel suo ultimo discorso a Montecitorio, il 18 gennaio 1979, Covelli disse: “Non intendiamo frapporre indugi a quello che sarà il primo vero incontro dei popoli europei; un incontro che servirà a far compiere insieme un notevole salto di qualità in virtù del quale, partendo dall’unione doganale, si potranno raggiungere i lidi della piena integrazione politica ed economica, illuminando e rasserenando le coscienze sugli aspetti della evoluzione europeista dei problemi nazionali: evoluzione, si dice con una certa preoccupazione, irreversibile. Certamente non si può più pensare di affrontare e risolvere problemi nazionali senza inquadrarli in una dimensione europea. Questo non significherà annullare le tradizioni nazionali, i valori nazionali, le peculiarità nazionali: significherà soltanto fondere gli apporti dei singoli Stati, amalgamare gli interessi dei singoli Stati, armonizzare nel modo migliore i problemi dei singoli Stati per poter procedere più speditamente alla costruzione dell’Europa, un’Europa dei popoli sintesi della civiltà delle nazioni che la compongono.
Un’Europa siffatta, anche se irreversibile, non può, non deve preoccupare nessuno. È l’Europa che noi vogliamo: una Europa che, dissolvendo le residue e pervicaci velleità di egemonia di qualcuno dei suoi membri, possa rappresentare la forza che manca oggi nell’assetto politico del mondo civile”.
Questo passo mi sembra di estrema attualità, come se Covelli presagisse quel che sarebbe diventata l’Unione europea ed avesse voluto esorcizzare i pericoli che rischiano di decomporla. Il tema della sovranità e dell’Europa è sotto i nostri occhi: ci domanderemo a lungo che cosa sarebbe accaduto se europeisti e nazionalisti tanto avveduti avessero avuto la possibilità di guidare e completare il processo di integrazione con la ragionevolezza della politica senza farsi intimidire e condizionare da poteri sovranazionali cui sono state delegate imponenti quote di sovranità fino a ridurre gli Stati nazionali ad appendici di burocrazie senz’anima.
Domenico Crocco, studioso e manager pubblico di grande valore, ha rivolto, da pugliese qual è, il suo interesse ad una figura centrale non soltanto nell’Italia fascista, ma anche nel dopoguerra, al “mitico” ministro dei Lavori Pubblici che nel Ventennio, praticamente, contribuì in maniera determinante a modernizzare l’Italia: Araldo di Crollalanza (1892-1986). Nel suo pregevole saggio – Il Ministro delle grandi opere che disse di no a Mussolini (Cedam, pp. 127, € 20,00) – Crocco racconta la vita dell’uomo politico e parallelamente lo sviluppo italiano con i giganteschi lavori dei quali ebbe la responsabilità come ministro nominato a capo di un dicastero cruciale a soli trentotto anni, nel 1930, dopo essere stato sottosegretario dello stesso Ministero del quale deteneva l’interim Mussolini. E a Mussolini si era permesso di opporsi quando il Duce praticamente gli intimò di procedere alla realizzazione del porto di Ostia, opera alla quale Crollalanza, supportato dalle Commissioni tecniche, era fermamente contrario. Chi aveva la capacità ed il coraggio di avversare un’esplicita e “strategica”, a suo modo”, richiesta del capo del Governo? Crollalanza obbediva alle leggi ed alla sua coscienza. Ebbe ragione. E Mussolini, appurato che si trattava un’operazione sbagliata, sostenuta da ambienti equivoci vicini al fascismo, lealmente lo ringraziò.
Il racconto di questa pagina della vita e della storia di Crollalanza è particolarmente toccante come lo sono quelle dedicate alla prematura morte della giovane moglie ed il ritrovato amore, tempo dopo, con quella che sarebbe stata la donna per il resto della sua vita.
Nella storia italiana, scrive Crocco, Crollalanza è stato certamente il più grande realizzatore di opere pubbliche: fondò la società delle strade, costruì porti, aeroporti, Ferrovie, pronti, dighe, acquedotti; unì l’Italia da nord a sud; rinnovò Bari e s’inventò quella colossale opera, per l’epoca, della Fiera del Levante: la porta d’Italia e del Mediterraneo aperta sull’Oriente. Fu il grande bonificatore e costruttore delle nuove città. Non si risparmiò in nessuna fase della sua vita, sacrificando tutto al bene comune ed in particolare allo sviluppo del Mezzogiorno. E perfino negli anni più duri del dopoguerra, quando riebbe l’agibilità politica, ottenne suffragi enormi che esulavano dall’appartenenza politica e gli fecero guadagnare al Senato della Repubblica, dove rappresentò a lungo il Msi anche come capogruppo, la stima di tutti gli schieramenti politici. Scrive Gennaro Sangiuliano nella sua pregevole postfazione al volume: “Complice la sua longevità, fu capace di scavalcare per decenni la fine del regime e la rovinosa guerra, ponendosi come figura di riferimento di quel mondo che uscito sconfitto aveva voluto mantenere, comunque, la sua posizione”.
Con questo lavoro Crocco colma una lacuna nella storia politica del Novecento e, per di più, riporta all’attenzione la figura di un politico meridionale che è stato un protagonista della ricomposizione nazionale con le opere realizzate e con l’intelligenza del pacificatore.