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Il Russiagate fa una nuova vittima. Perché lo scontro Trump-Fbi continua

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Una mossa inaspettata, che ha provocato reazioni divergenti all’interno dell’amministrazione e della comunità intelligence: a poche ore dal ritiro di Andrew McCabe, già deputy director dell’Fbi coinvolto nelle indagini sul Russiagate, arriva la notizia del suo licenziamento da parte di Jeff Sessions, Attorney General degli Stati Uniti. Un provvedimento scaturito dalla condotta di McCabe, che non avrebbe rispettato le regole di deontologia professionale nel suo servizio all’Fbi nei mesi del coinvolgimento (anche mediatico) nelle indagini sulle interferenze russe in campagna elettorale. Un provvedimento che sa anche tanto di damnatio memoriae nei confronti di una persona che ha incarnato il doloroso momento di tensione tra i vertici del Bureau e la Casa Bianca.

Non solo un atto simbolico. Tra gli effetti concreti che peseranno su McCabe, ad esempio, l’impossibilità di godere di una serie di benefit e vantaggi contrattuali relativi al suo ritiro a causa della estromissione dall’Fbi. Anche per questo, Sessions avrebbe avvertito tramite una email il diretto interessato ed i suoi avvocati, proprio prima di rendere pubblica la notizia del licenziamento. Un episodio che ha sollevato l’attenzione di tutti e commenti contrapposti tra coloro che considerano troppo politico l’atteggiamento di Sessions e coloro che trovano in questo modo conferma alle accuse di parzialità rivolte al Bureau.

Tra i primi ad intervenire il presidente Donald Trump, come di consuetudine via Twitter: “Andrew McCabe ‘fired’, un grande giorno per gli uomini e le donne che lavorano con passione all’Fbi: un grande giorno per la democrazia. Il bigotto James Comey era il suo capo e faceva sembrare McCabe un accompagnatore. Sapeva tutto delle bugie e della corruzione in corso ai più alti livelli dell’Fbi!”

Il diretto interessato non ha preso bene il provvedimento e fa sapere di respingere al mittente le accuse di slealtà e scorrettezza nell’esercizio delle funzioni investigative. Secondo coloro che hanno portato avanti il dossier al dipartimento di Giustizia, McCabe sarebbe più volte venuto meno al dovere professionale, passando informazioni ai media e addirittura fornendo notizie false nel corso delle sue numerose udienze pubbliche e private in relazione al modo in cui l’Fbi avrebbe indagato sulle interferenze nelle presidenziali e sui possibili contatti tra l’organizzazione di Trump e Mosca.

È possibile, tra l’altro, che l’uomo avesse intuito le mosse di Sessions: nei giorni scorsi avrebbe trascorso ore ed ore al Dipartimento per essere sottoposto a veri e propri interrogatori che non lasciavano presagire nulla di buono.

Il provvedimento segna un ulteriore sfaldamento del rapporto tra l’esecutivo e l’agenzia federale. Il rischio più grande, quello di destabilizzazione, vorrebbe essere scongiurato dai promotori della linea dura, Sessions in testa, secondo cui non si tratterebbe di un atto contro l’intero Bureau ma rivolto esclusivamente ai vertici dello stesso e alle loro condotte.

Sarà difficile fare previsioni sulla tenuta di questa linea. In tanti all’interno dell’Fbi stimavano e stimano il lavoro di Comey – così come l’operato di McCabe – e non si può escludere un movimento di faglie che contribuisca ad allargare la ferita. Se nuove rivelazioni ai media e leak di notizie sensibili persisteranno, sarà facile intuirne il perché.

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