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Sulla Russia, l’amministrazione Trump non fa sconti. E Putin rinvia la visita

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Alla fine il presidente americano Donald Trump ha rinunciato all’idea di ospitare il russo Vladimir Putin a Washington; almeno non prima del 2019. Si tratta di un passo indietro, Trump sembrava molto lanciato nell’invitare Putin e dar seguito al colloquio di Helsinki, sebbene fin da subito parti del governo (intelligence e sicurezza, ma anche gli Esteri) avevano chiesto cautela.

È stato il consigliere alla Sicurezza nazionale, John Bolton, uomo che in precedenza si era occupato dell’organizzazione tecnica dei dettagli dell’incontro finlandese, a dire pubblicamente che il prossimo faccia a faccia tra i leader di Russia e Stati Uniti ci sarà “dopo il primo dell’anno prossimo”, e ha citato il Russiagate – l’inchiesta sulle interferenze russe alle presidenziali del 2016 che il dipartimento di Giustizia sta conducendo attraverso un procuratore speciale quasi plenipotenziario – come motivo del rinvio.

C’è l’inchiesta, ha spiegato Bolton, che è vero che è “una caccia alle streghe” – sottolineatura, piena citazione trumpiana, cambio di rotta netto del consigliere che fino allo scorso anno parlava del’interferenza come di “un atto di guerra” – però c’è, e non possiamo aprire le porte dello Studio Ovale a uno che due anni fa potrebbe aver diretto un’operazione di guerra informatica e informativa per alterare le scelte democratiche degli americani (nota: l’Intelligence Communitiy americano da mesi ha tolto definitivamente quel condizionale su “potrebbe”).

Sarà anche una caccia alle streghe, ma la Casa Bianca ha fatto un passo indietro sostanziale su una delle principali linee di politica estera che il presidente Trump vorrebbe portare avanti: le relazioni con la Russia. Dietro, evidente, lo zampino di parti dell’amministrazione che tendono a normalizzare l’andamento delle cose.

Ieri, mentre la notizia del rinvio della visita si diffondeva, il segretario di Stato, Mike Pompeo, era in audizione davanti al Foreign Relations Committee del Senato. I senatori lo hanno incalzato sulla questione Russia, hanno chiesto di Helsinki: il capo della diplomazia americana non ha risposto sui contenuti dell’incontro – anche perché l’audizione andava in onda live sui canali di notizie statunitensi – ma ha sottolineato che la politica americana nei confronti di Mosca non cambierà. Per esempio, sulle sanzioni “rimane completamente invariata”, anzi non sono da escludere nuove azioni.

Poco dopo, Pompeo ha twittato un punto sostanziale sul tema del confronto con la Russia: “Gli Stati Uniti non riconoscono, e non riconosceranno, l’annessione russa della . Siamo insieme con gli alleati e i partner nel nostro impegno per l’Ucraina e la sua integrità territoriale, e abbiamo formalizzato la nostra politica di non-riconoscimento con la Crimea Declaration”, uno statement diffuso un’ora prima dell’audizione alla commissione del Senato.

È una linea chiara, che evidenzia i motivi veri dietro alla rinuncia dell’invito a Washington per Putin: l’annessione crimeana e la crisi ucraina sono il motivo che ha aperto lo scontro tra Stati Uniti e Russia, a cui la questione dell’interferenza elettorale s’è aggiunta due anni dopo. Sono dossier enormi a cui per ora non c’è soluzione, o sforzo risolutivo da parte della Russia, e per questo gli americani non intendono cedere. (Tra l’altro, la dichiarazione di Pompeo, che segue una posizione ribadita anche dal ministro degli Esteri italianoEnzo Moavero Milanesi, è pure un monito “a scanso di dubbi” per eventuali scatti in avanti di qualche alleato ansioso di accontentare le distensioni gratuite richieste da Mosca, ndr).

Un altro esempio di questo genere di situazioni lo aveva offerto la scorsa settimana Joseph Votel, il generale che comanda il CentCom del Pentagono, il quale aveva parlato ai giornalisti di “nessuna novità” sulla Siria. Commander Votel aveva detto esplicitamente che i militari continuavano a seguire il National Defense Authorization Act, legge del 2014 (disposto proprio dopo l’annessione della Crimea) che impedisce alla Difesa americana qualsiasi genere di coordinazione diretta con i militari della Federazione russa – resta aperta la possibilità di linee di cooperazione multilaterali, e forse quel che sta accadendo al sud della Siria segue, in via discreta, questa opzione con Mosca inserita in un sistema che coinvolge anche Gerusalemme e Amman.

Le pressioni subite da Pompeo, soprattutto nelle domande dei senatori democratici, sono legate all’assenza di dettagli sul vertice di Helsinki, ancora, dopo dieci giorni dall’incontro – i Dem usano la questione come linea elettorale in vista delle Midterms. E allo stesso modo anche la decisione di tornare indietro su Putin potrebbe seguire il solco, dato che parti dei Repubblicani sono scontente di come stanno andando le cose con la Russia, sebbene l’elettorato è con Trump. Il presidente è stato lasciato isolato dal partito su Mosca, tanto quanto sulla linea dura con l’Europa – risolta in extremis ieri –, che però è un argomento su cui anche gli elettori temono ripercussioni.

Qualche giorno fa, il Cremlino aveva fatto sapere di aver ricevuto ufficialmente l’invito alla Casa Bianca da parte degli americani, salvo poi dirsi “non ancora pronto” per la distensione collegabile a una visita di stato. A conti fatti, la prima delle due dichiarazioni opposte era niente più che un’altra operazione comunicativa per creare disordine all’interno del dibattito politico e pubblico americano.

Già dopo il vertice, i funzionari russi si divertivano a far uscire dichiarazioni che parlavano di “prossime implementazioni” sulle decisioni prese a Helsinki, mentre a Washington si brancolavano nel buio. Le agenzie di intelligence erano addirittura stupite dell’invito a Putin – vedi il caso del Dni Dan Coats –, tanto erano state tenute all’oscuro sul dialogo intavolato in Finlandia, e facevano cantare le gole profonde sui giornali che lamentavano l’assurda assenza di trasparenza; al punto che alcuni congressisti democratici avevano avanzato l’ipotesi di chiamare a testimoniare Marina Gross, l’interprete, unica americana presente all’incontro oltre a Trump.

E il Cremlino ci giocava: l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov, parlava di “importanti accordi verbali”, e le agenzie governative di Mosca diffondevano le immagini della riunione con cui Putin aveva aggiornato i più alti papaveri del governo russo su quello di cui si era parlato con Trump, mentre non c’erano state riunioni simili a Washington. Attaccato dal senatore democratico Bob Menendez in audizione, Pompeo s’è difeso dicendo che “i presidenti hanno la prerogativa di scegliere chi deve esserci e chi no in una riunione” (“Sono certo che hai avuto incontri privati ​​one-to-one anche nella tua vita. [E magari] hai scelto quell’impostazione come il modo più efficiente”).

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