“Tutti in Europa vogliamo che il continente africano venga sviluppato, ma ancora non c’è un piano collettivo concreto. Tutti cercano di impiegare le proprie risorse per conto proprio, magari guardando anche in cagnesco l’altro. Questo ovviamente non fa bene alle politiche di sviluppo, qualsiasi esse siano”, così a Formiche.net Matteo Villa, esperto di migrazioni e research fellow dell’Ispi. A meno di un mese dalla conferenza di Palermo alla Farnesina è andata in scena oggi la seconda edizione della conferenza ministeriale Italia-Africa. Priorità dialogo, investimenti e formazione delle giovani generazioni nel continente africano, insieme alla collaborazione costante con gli attori locali e allo slancio concreto delle imprese italiane verso un incremento di capitale che negli ultimi anni si è registrato in maniera considerevole negli Stati africani.
Le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi al ministero degli Esteri durante l’incontro con i rappresentanti degli Stati africani, si sono agganciate a questi temi fondamentali, ricollegandoli, poi, ai flussi migratori che negli ultimi anni hanno visto il Bel Paese al centro di una vera e propria crisi nella gestione delle partenze e degli sbarchi sulle coste del Mediterraneo. La parola chiave, insieme alla necessità di rafforzare e incentivare gli investimenti in Africa, arriva dal vice ministro Emanuela Del Re ed è racchiusa nella necessità di formare i giovani. Un “cambiamento di prospettiva” sull’Africa, che Del Re ha inquadrato in una realtà precisa: “L’importante è creare competenze in questo continente, per questo l’Europa ha deciso di investire sui giovani: saranno infatti 35 mila gli studenti e docenti africani ad accedere al programma Erasmus + entro il 2020, mentre entro il 2027 è prevista la formazione in vari campi per 750 mila persone”. Un approccio concreto che aprirebbe, inoltre, a nuove possibilità di integrazione.
Il fil rouge portato avanti dalle dichiarazioni emerse dalla ministeriale alla Farnesina potrà in qualche modo favorire anche la gestione dei flussi migratori ?
Quando si parla di Africa si fanno sempre tantissime promesse che poi nella sostanza delle cose non trovano un vero e proprio riscontro oggettivo nei fatti. Sia per quanto riguarda lo sviluppo, che per quanto riguarda la condizionabilità stessa dello sviluppo, l’effetto dell’Italia resta abbastanza limitato. Questo però, se visto a livello europeo cambia completamente. La capacità di impatto a livello multilaterale è elevata, ma le politiche, anche quelle che chiedono un piano Marshall per l’Africa, molto spesso restano molto nazionali. Tutti, in fin dei conti vogliamo che il continente africano venga sviluppato, ma non c’è un piano collettivo concreto. Tutti cercano di impiegare le proprie risorse per conto proprio, magari guardando anche in cagnesco l’altro. Questo ovviamente non fa bene alle politiche di sviluppo, qualsiasi esse siano.
Di cosa bisogna tener conto per cercare di affrontare il problema in ottica condivisa e propositiva?
Bisogna tenere conto di un altro fattore fondamentale quando si parla di sviluppo e migrazione: la “gobba migratoria”. I Paesi che fanno parte della fascia di reddito basso hanno tassi di migrazione che aumentano sempre, costantemente nella storia. Negli ultimi decenni, infatti, se si mettono su una curva tutti i Paesi a seconda della loro ricchezza, si può notare che il picco di migrazione si ha quando si arriva a 10 mila dollari pro capiti per parità di potere d’acquisto (e cioè un reddito medio). Diciamo quindi che in ogni caso per noi, a prescindere dalle migrazioni, il problema dello sviluppo di quei Paesi è importante e, come ha giustamente detto Emanuela Del Re, è necessario promuovere l’imprenditoria locale, questioni che incoraggino le migrazioni intracontinentali. Lavoriamo, dunque, in modo che questi diventino appetibili, anche all’interno dell’Africa sub sahariana, in modo che i migranti abbiano ragione per non spostarsi in modo irregolare sulle lunghe distanze.
A livello europeo, dunque, cosa dovrebbe sbloccarsi per cercare di venirsi incontro sullo sviluppo del continente africano?
Cerchiamo di chiedere all’Africa tutta e alle varie organizzazioni regionali di essere più aperte nella gestione dell’immigrazione irregolare al loro interno ma poi, in Europa, non si riesce a trovare un accordo interno nella gestione dei flussi. E questa vera e propria miopia di chiedere agli altri ma di non guardare all’interno, appartiene un po’ a tutti i Paesi del mondo. L’esempio concreto è costituito da una delle ultime proposte di costituire un meccanismo di sbarco regionale per salvare le persone e riportarle in Paesi terzi, meccanismo che ha visto una chiusura totale da parte degli Stati confinanti coinvolti. Se non riusciamo a lavorare insieme a livello europeo e un po’ difficile chiedere agli altri di darci una mano.
Mattarella, nel corso della ministeriale di oggi, ha sottolineato come dal 2015 siano stati accolti già 475 mila migranti. Quali sono i dati, ad oggi, degli arrivi e delle partenze, in particolare dalla Libia?
C’è stato un crollo, che continua dal luglio dell’anno scorso e che si è rafforzato negli ultimi mesi. Negli ultimi due mesi e mezzo gli sbarchi sono diminuiti circa dell’80%, ultimamente sono arrivati addirittura a quasi il 90% in meno rispetto ai periodo di alti flussi. Di quelli che cercano di partire, inoltre, quasi la maggioranza di questi vengono intercettati e riportati indietro. In Italia non sta arrivando praticamente nessuno dalla Libia. Tutti gli sbarchi che vediamo, o almeno quasi tutti, arrivano dalla Tunisia e tra l’altro a livelli molto bassi. Molto spesso in questi mesi si è parlato di flussi, ed è stato giusto, perché si è voluto capire cosa stesse accadendo. Ora però sarebbe il caso anche di guardare da noi e alla politiche di rimpatrio. Continuare a chiedere ai Paesi della sponda sud del Mediterraneo delle cose un po’ fantascientifiche, come quelle chieste nell’ultimo anno e mezzo, è un po’ pericoloso. Tra queste quella di aprire delle piattaforme di sbarco, proposta rifiutata da tutti i Paesi. Se noi continuiamo ad insistere, a fronte anche dei numeri molto bassi che abbiamo ora in Italia, c’è poi il rischio di che si arrivi alla goccia che fa traboccare il vaso, stimolando l’effetto contrario.
In che modo la conferenza di Palermo potrà influire in questo cambiamento di prospettive? Quali possono essere effettivamente gli attori internazionali imprescindibili per la riuscita dell’appuntamento siciliano?
In questo senso il governo è stato realistico. Non ha mai detto di voler risolvere il problema attraverso Palermo. Si sta lavorando affannosamente ma ci si è mossi relativamente in ritardo. Inoltre, in generale, non siamo molto forti quando c’è bisogno di coinvolgere potenze, incluso per esempio Vladimir Putin. Io credo che sarà difficile avere la presenza dei capi di Stato e anche dei ministri degli Esteri, anche se in linea generale sarebbe importante avere tutti. La presenza fondamentale, poi, restano comunque gli attori interni che sono comunque un’incognita.
A questo proposito, quanto è possibile e realistico che Haftar partecipi personalmente alla conferenza, e cosa si smuoverebbe a livello internazionale se questo dovesse accadere?
Se Serraj è impossibile che non ci sia, essendo in questo momento l’attore più debole, Haftar invece resta un’incognita, considerando le provocazioni costanti a cui ci ha abituato. Se dovesse confermare, però, probabilmente riuscirebbe a trainare dietro di sé tutto l’apparato, anche di sicurezza, che si porta dietro, accrescendo l’importanza stessa della conferenza. A quel punto, infatti, altre potenze potrebbero avere interesse a mandare rappresentanti di livello superiore a quelli che manderebbero se lui non ci fosse.
Conte ha detto che l’appuntamento di Palermo “si pone l’obiettivo essenziale di ribadire il forte e compatto sostegno della comunità internazionale al processo politico guidato dalle Nazioni Unite”. Una conferenza, dunque, che tiene conto come “nessuna soluzione può essere sostenibile senza il pieno coinvolgimento e la piena assunzione di responsabilità da parte del popolo e delle istituzioni libiche”. Cosa ne pensa?
Considerando che siamo a ridosso della conferenza, bisogna dire che i preparativi procedono decisamente a rilento e non abbiamo molte conferme. Ritengo comunque che la questione si possa basare più su una vera e propria questione simbolica. Non si sa chi parteciperà, ma l’italia ha voluto comunque andare avanti perché, in fine dei conti, è consapevole che l’importanza non è il documento firmato. Anzi, non avere il documento firmato potrebbe essere quasi meglio, visto che molte di queste “firme” poi non hanno portato a nessun risultato (penso alla stretta di mano tra Fayez al Serraj e Khalifa Haftar in presenza di Emmanuel Macron). Se l’Italia vuole essere garante di trattative concrete deve lavorare meno sotto la luce dei riflettori, che si accendono con le conferenze, e contrattare con i veri attori forti in Libia, che in questo momento sono le milizie interne. D’altra parte la pace arriva sempre disarmando, ma prima di disarmare bisogna arrivare ad un tavolo negoziale e l’Italia è in buona posizione per assumere una posizione di rilevo in questo senso.