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Sviluppo economico, pace e diritti dei popoli. Lo sguardo sul mondo di Bettino Craxi

Di Bettino Craxi

Nel 1989 Craxi diviene rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite, Pérez de Cuéllar, in una missione internazionale per esplorare mezzi e vie, proporre azioni per una rapida riduzione del peso del debito dei Paesi in via di sviluppo. È un incarico che nessun italiano ha mai avuto prima: unico precedente a poter essere richiamato è il mandato che venne affidato a Olof Palme per il conflitto Iran-Iraq, e che valse poi al leader socialdemocratico svedese il premio Nobel per la pace. A Craxi viene dunque chiesto di prendere contatti con i Paesi debitori e creditori e le istituzioni creditizie e di redigere un rapporto contenente analisi e raccomandazioni. Nell’ottobre 1990 Craxi vola a New York e presenta tale rapporto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che lo approva all’unanimità. Viene dunque nominato consigliere speciale per i problemi dello sviluppo e del consolidamento della pace e della sicurezza (incarico rinnovatogli nel marzo 1992 da Boutros-Ghali). In questa analisi sintetica dei contenuti del testo del Rapporto sul debito (che consta di 582 punti), Craxi ne affronta le tematiche salienti e riflette sulle soluzioni proposte.

Il Rapporto generale che ho consegnato presenta proposte e suggerimenti diversi, per le varie specie di crediti e per le diverse classi di Paesi poveri, semipoveri e a reddito cosiddetto medio, per le differenti aree regionali. I debiti verso le banche, verso i governi e loro istituzioni, verso organismi finanziari multilaterali (Ifi [Istituzioni finanziarie internazionali. NdC]) comportano problemi distinti con responsabilità distinte, ma poiché la crisi è sistematica, per la soluzione efficace e duratura dei problemi occorre una azione che investa tutte le componenti del sistema. Sul totale dei debiti a lungo termine, i debiti verso privati sono ormai solo la metà: 465 miliardi nel 1989, contro 466 verso i creditori ufficiali. Fra questi, le Ifi sono creditrici per circa 200 miliardi. Dunque in primo luogo emerge una responsabilità ed un dovere dei governi, diretto e indiretto, relativo ai crediti ufficiali. Innanzitutto si propone la virtuale cancellazione del servizio dei crediti bilaterali nei riguardi dei Paesi poveri. Il 90% di tale servizio dovrebbe essere cancellato, venendo addossato ai bilanci statali, man mano che matura, in modo da diluirne l’onere, per i bilanci degli Stati creditori. Il restante 10% andrebbe trasformato in prestiti a lungo termine, a condizioni Ida (tasso del 2%, maturità trenta o quarant’anni) e pagato in valuta locale indicizzata. L’importo residuo dovrebbe affluire a Fondi di contropartita, da costituirsi anche con l’apporto di mezzi dei governi indebitati, di organizzazioni internazionali e di organismi senza fini di lucro, per finalità di sviluppo economico, di difesa e valorizzazione dell’ambiente e del capitale umano, di tutela dell’infanzia, di sradicamento della droga e del narcotraffico. Per i Paesi a reddito intermedio, quelli cioè che superano la soglia dei 500 dollari per abitante ma non pervengono oltre i 1200, sono necessari interventi dello stesso genere, peraltro con percentuali di cancellazione del servizio del debito bilaterale graduate, fra l’80% e il 60%. Le riduzioni dovrebbero essere minori – ma la tecnica identica – per i creditori bilaterali nei riguardi dei Paesi a reddito cosiddetto medio. (Anche la destinazione ai Fondi di contropartita dovrebbe graduarsi secondo i livelli di reddito nei Paesi.) Nel complesso, l’onere per i bilanci pubblici dei Paesi creditori, per tali misure, non dovrebbe superare lo 0,1% del Pil dei Paesi industrializzati. Per quanto riguarda i crediti verso le Ifi, ritengo che si debbano accrescere le «facilities» a favore dei Paesi poveri, riducendone le attuali limitazioni ed estenderle anche per i Paesi a reddito intermedio: che si debbano studiare e riprendere le «facilities» riguardanti i Paesi colpiti da crisi speciali come quella energetica. Occorre dare un nuovo, più dinamico ruolo alle Ifi nei processi di aggiustamento, di riconversione, di sviluppo delle infrastrutture, di sostegno finanziario del piano Brady. Ciò comporta, naturalmente, la provvista alle Ifi di mezzi concessionali ad hoc. Essi dovrebbero affluire anche dall’utilizzo dei diritti speciali di prelievo, resi disponibili con la delibera di aumento delle quote del Fondo monetario internazionale. Per quanto riguarda i crediti verso le banche, il piano Brady costituisce un passo coraggioso nella giusta direzione. Tuttavia, esso va rafforzato, innanzitutto mettendo a sua disposizione maggiori fondi, sia per estendere l’ambito di azione includendo simultaneamente grandi Paesi e Paesi minori, in diversi continenti, con un ritmo più veloce di quello tenuto sin qui, sia per accrescerne l’efficacia, adeguandola alla capacità di pagare dei Paesi indebitati. Queste vanno considerate tenendo conto del rapporto fra il tasso di interesse che rimane a loro carico dopo le riconversioni e il tasso di crescita del prodotto lordo: e ciò suggerisce sconti sui capitali e sugli interessi in misura sensibilmente maggiore di quelli del 30-35% sin qui attuati, tendenzialmente fra il 50% e il 60%. Ma a tale fine è importante accrescere le garanzie sui crediti residui, relativi al servizio del debito e al suo montante.

Questo comporta, appunto, maggiori fondi a disposizione per il finanziamento del piano, comporta anche un regime fiscale, di vigilanza bancaria e contabile che favorisca queste operazioni. Altre misure di rafforzamento del piano Brady dovrebbero riguardare i prefinanziamenti, per accelerare le operazioni e l’incentivazione delle banche che sono disposte ad aderire in tempi brevi, con connessi disincentivi per quelle che cercano di addossare i costi delle ristrutturazioni ad altri creditori. Per i Paesi la cui capacità di pagare è molto bassa, anche perché il loro reddito abbia un basso valore sul mercato secondario, occorre predisporre mezzi finanziari per effettuare riscatti globali del riscatto medesimo, nel quadro di politiche domestiche ed internazionali rivolte a recuperare la solvibilità e il merito di credito di tali Stati. Nelle mie visite alle maggiori istituzioni bancarie nel mondo ho riscontrato, in Europa, negli Usa, in Giappone, sia pure con diversità di accenti, un interesse positivo, concreto alla presenza dei Paesi in via di sviluppo. Questo interesse va stimolato e rafforzato con varie misure, onde riattivare il trasferimento di capitali dai Paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo, che sul fronte privato si è pericolosamente disseccato nell’ultimo decennio. Fra queste misure, innanzitutto, vanno considerati il co-finanziamento, le garanzie assicurative, la co-assicurazione da parte di organismi finanziari pubblici multilaterali e bilaterali. Le forme della nuova finanza, peraltro, vanno diversificate per evitare di cadere negli errori del passato. L’America Latina ed i Caraibi hanno immense risorse, che il peso del servizio del debito ha impedito di valorizzare. Nel decennio Ottanta il prodotto lordo globale è cresciuto solo dell’1% annuo e quello pro capite, per conseguenza, è cresciuto dello 0,1% annuo: quasi del 10% nel decennio. La mancata crescita ha intaccato la capacità di pagare. La crisi si è avvitata su se stessa. Per il complesso dell’America Latina e dei Caraibi ritengo che si debba porre, come obiettivo sistematico, un piano di riduzione e riciclaggio tale da azzerare e successivamente invertire, grazie ad apporti pubblici e privati, l’attuale deflusso finanziario di 25 miliardi di dollari annui. È necessario innanzitutto che i governi, per i crediti ufficiali bilaterali, pratichino riduzioni e alleggerimenti paragonabili a quelli che le banche commerciali hanno accettato come necessari, con il piano Brady. Le Ifi, dal canto loro, hanno un saldo fra erogazioni e pagamenti con l’America Latina che è attualmente allo zero.

Occorre che esso diventi positivo, grazie a sportelli e strumenti speciali simili a quelli adottati per i Paesi più poveri, anche se, di solito, a condizioni di concessionalità meno accentuate. Terzo punto importante è quello degli aiuti allo sviluppo per finanziare, in termini concessionali, le infrastrutture e incentivare le iniziative di «nuova moneta» delle forze del mercato, nella produzione e nella diversificazione delle esportazioni. Egualmente importante è il finanziamento ed il rafforzamento del piano Brady. Occorre che siano più consistenti gli incentivi per una maggiore riduzione degli interessi e del montante dei debiti. In tale quadro va anche esaminata la possibilità che, per certi Paesi, una quota degli interessi sia versata in Buoni in valuta locale indicizzati, convertibili alla pari in proprietà in loco. Occorrono mezzi di finanziamento «altamente» concessionale per le operazioni di riscatto che, in certi casi estremi, sembrano la migliore soluzione e che in altri servono per allargare il quadro delle opzioni. In Asia il problema del debito emerge nella parte sud che include India principalmente, Pakistan, Sri Lanka. Questa parte del continente asiatico – che ha 345 miliardi di dollari di Pil (1989) – ha il 30% della popolazione mondiale e la metà dei poveri del mondo (46,4% nel 1985). Del resto il suo reddito pro capite è di 280 dollari. Il tasso di crescita del Pil dell’Asia del Sud nel periodo 1980-89 è stato del 5,5% mentre il declino relativo del 1989 (4,8%) implica pur sempre un tasso di sviluppo che si colloca fra i più alti fra le grandi aree del mondo. Nelle previsioni della Banca Mondiale, comunque al 2000, nel Sud dell’Asia, i poveri saranno ancora 350 milioni. Ciò, soprattutto, comporta che il peso del debito, che grava su alcuni di questi Paesi, sia – in ogni caso – un problema che esige una costante attenzione. Lo sviluppo dell’Asia del Sud deve avere due pilastri: un aumento dell’agricoltura adeguato alla crescita demografica, un aumento del settore industriale differenziale per cambiare la struttura produttiva nel senso della modernizzazione.

La Banca Mondiale, nel suo Rapporto sulla povertà, scrive che «il progresso in Asia dipende criticamente dallo sviluppo in Cina ed in India. Se le riforme economiche falliscono in Cina o l’India è incapace di mantenere il suo ritmo recente, le prospettive di riduzione della povertà saranno assai meno favorevoli». Questi due Paesi, che ricevono pochi sostegni alla loro crescita, ne hanno bisogno di maggiori con prestiti tipo Ida per infrastrutture e agevolazioni agli investimenti. Il Bangladesh, con i suoi 110 milioni di abitanti, divide con un manipolo di Paesi dell’Africa subsahariana il primato della povertà: il suo Gdp pro capite è di 170 dollari nel 1988 e metà della popolazione, agli inizi degli anni Ottanta, viveva in «estrema povertà», vale a dire in situazioni di incapacità di ottenere abbastanza cibo da vivere «ragionevolmente una vita attiva». La proposta di rimettere ai Paesi poveri il servizio del debito verso governi non può non riferirsi in linea prioritaria al Bangladesh. Sino ad ora il Pakistan è stato capace di far fronte alle obbligazioni del servizio del suo debito a causa del profilo favorevole delle sue scadenze, ma l’accrescimento del finanziamento del disavanzo pubblico mediante debito esterno può peggiorare pericolosamente la situazione. Il debito dell’Africa subsahariana ascende ormai a 145 miliardi di dollari.

Nell’Africa subsahariana, nel periodo 1980-86, sotto il gravame di questi prestiti, il prodotto lordo è disceso pro capite del 3,1%, mentre i consumi diminuivano del 2,4% e le esportazioni si riducevano del 2,1% annuo in termini reali così peggiorando il rapporto fra servizio del debito ed esportazioni. Le importazioni, a causa del peggioramento delle ragioni di scambio (del 13%) che ne rialzava il prezzo, scendevano ancora di più: ossia del 7,5% annuo, tagliando – assieme – nuovi investimenti, manutenzioni e consumi. L’afflusso di risorse complessivo, grazie agli aiuti a fondo perso e ai prestiti bilaterali e multilaterali, costituisce il 7,3% del Pil di cui però la quota devoluta ad investimento è solo il 2,3%. Ne viene un preoccupante declino della accumulazione di capitali dal 21% al 17,5% fra l’inizio e la fine degli anni Ottanta. Ormai, il problema della economia dei Paesi subsahariani, senza drastici tagli al loro debito e misure eccezionali di concessionalità di Fmi e Banca Mondiale, appare irresolubile. Anche se il mio Rapporto generale è stato ultimato poco prima che scoppiasse la crisi del Golfo, a seguito dell’invasione irakena del Kuwait, tuttavia la grande regione del Nord Africa e del Medio Oriente, che si completa a sud con la regione del Corno d’Africa, riceve – comunque – particolare attenzione nel Rapporto. Ciò proprio perché essa è un’area specifica di interdipendenza tra Paesi creditori e debitori. In particolare lo è per i Paesi della Cee con interessi mediterranei e i Paesi ricchi produttori di petrolio del Golfo da un lato e i Paesi afro-arabi indebitati di questa regione dall’altro lato. Il debito di quasi tutti questi Paesi è per il 60-70% con i governi e le loro istituzioni. Ritengo che sia da proporre, innanzitutto, una moratoria per i Paesi più colpiti dalla crisi. Inoltre è urgente una ristrutturazione dei debiti bilaterali secondo le linee suggerite. Una parte dei debiti verso i creditori ufficiali non è con governi o loro organismi, ma con le istituzioni multilaterali. Bisogna dunque disporre di appositi mezzi di liquidità internazionale, per gli organismi multilaterali, per dare luogo – anche per questi crediti – a moratorie ed interventi speciali di riconversione; e inoltre a finanziamenti di sostegno, da parte di tali organismi finanziari, al fine di tamponare i precari equilibri sconvolti dalla presente crisi e di avviare processi di ripresa economica. In tale quadro occorre altresì che i Paesi arabi donatori facciano uno sforzo aggiuntivo e deroghino a certe condizioni, relative ai loro fondi di rotazione, in modo da affiancare l’azione bilaterale e multilaterale ad hoc dei creditori Ocse con la propria. Lo stato eccezionale di crisi che si è creato presenta certo problemi nuovi ed introduce fattori negativi che costringono ad un riesame dell’intera situazione. Il debito dell’Est europeo (Urss a parte) ammontava alla fine del 1988 a 100 miliardi di dollari di cui il 40% in Polonia e il 20% in Ungheria.

Il debito spesso è il risultato di inefficienza delle imprese collettivistiche, la cui gestione è stata costantemente priva di vincoli. Perché i governi pensavano a ripianare le perdite e si finanziavano poi direttamente all’estero a carico del tenore di vita della popolazione. Notevoli progressi verso l’economia di mercato sono stati fatti, dopo la caduta dei regimi comunisti, in Polonia ed in Ungheria, sono in corso in Cecoslovacchia commutamenti coraggiosi nella pianificazione dei prezzi, nei cambi della organizzazione dei mercati del capitale e del lavoro e dei servizi e con rafforzamenti della finanza pubblica, nuovi esperimenti sono avviati negli altri Paesi. Le strategie per la ristrutturazione del debito verso questi Paesi e la provvista di essi di nuova moneta debbono evitare che si ripetano i vecchi errori o che se ne facciano di simili, debbono favorire il processo rapido di transizione globale, con finanziamenti soprattutto a livello di imprese. Al debito pubblico va sostituito il debito privato e l’investimento diretto: le formule innovative di nuova finanza, basata sui progetti e sulla valorizzazione delle materie prime, la collaborazione commerciale internazionale. Importante è esplorare la possibilità di costituire una unione dei pagamenti dell’Est europeo con assistenza finanziaria della Cee, così come si fece per l’Europa occidentale dopo la Seconda guerra mondiale. L’attuazione di zone di libero scambio associato alla Cee, secondo la linea delle politiche di grandi aree regionali, può essere in questo quadro molto più efficace di grandi prestiti concessionali dei governi ai governi.

L’importo che viene erogato dai Paesi donatori ai Paesi in via di sviluppo ha oscillato da una decade attorno ai 45 miliardi di dollari – a poteri di acquisto 1987 – toccando una punta di 50 nel 1985. Poi è disceso via via, avvicinandosi ai livelli dell’inizio del decennio. Da ultimo è risalito ai 50 miliardi di dollari, pari alla stessa percentuale del Pil del 1980, ma lo scorso anno vi è stata ancora una flessione che allarma. Occorre raddoppiare gli aiuti allo sviluppo, portandoli alla percentuale dello 0,70% del Pil dei Paesi donatori. Tale percentuale secondo i calcoli compiuti ormai da diversi decenni e via via riconfermati dal Dac, sono l’importo necessario per consentire che l’aiuto allo sviluppo raggiunga un livello accettabile, per l’inseguimento del Sud rispetto al Nord del mondo. Infatti, 60 miliardi di dollari aggiuntivi destinati interamente allo sviluppo, con un rapporto capitale-reddito di 4 e un moltiplicatore di 2 per la attrazione di finanza privata ne potrebbero generare 30 di prodotto lordo aggiuntivo annuo, pari all’1% del Pil dei Paesi in via di sviluppo. Ciò eleverebbe il tasso di crescita del reddito pro capite dal 3% medio dell’ultimo ventennio al 4%: contro una crescita media del nostro prodotto pro capite del 2-2,5%. Tutto questo è giusto e necessario. È anche giusto e necessario che gli Stati debitori si impegnino lealmente per fare la loro parte. Essi, innanzitutto, debbono saper riordinare le proprie finanze pubbliche elevando la pressione fiscale ed evitando che i necessari e doverosi interventi sociali e di incentivazione economica si disperdano e gonfino con pratiche di assistenzialismo indiscriminato e di dispendio sproporzionato. I progetti faraonici vanno evitati, le redditività calcolate con più cura, le imprese pubbliche vanno gestite come società per azioni con i propri bilanci e, ove l’economia pubblica sia troppo estesa, vanno in tutto o in parte privatizzate, per espandere l’economia di mercato, aprire il sistema all’investimento internazionale, aumentare gli spazi per l’imprenditorialità locale e le joint ventures. L’economia, la finanza e la banca senza regole sarebbero una pericolosa avventura; ma i vincolismi e i dirigismi discriminatori costituiscono una dannosa concezione burocratica, che riduce il risparmio domestico, favorisce l’indebitamento, riduce lo sviluppo.

È inammissibile l’irresponsabilità costituita dalle esportazioni massicce di capitali da parte dei cittadini dei Paesi indebitati, ma occorre anche sviluppare forme appropriate di risparmio, difeso dall’inflazione per attirare al mercato domestico il capitale che si forma. Con le varie operazioni del turismo, delle rimesse degli emigrati, dei commerci internazionali. E ciò comporta anche la lotta contro l’inflazione: peraltro considerando prioritaria la politica fiscale e dei redditi, rispetto alle terapie monetaristiche d’urto. Tutto ciò è difficile, ma non impossibile come mostra l’esperienza di Paesi che sono riusciti ad uscire dalla crisi del debito o vi stanno uscendo gradualmente e che, nello stesso tempo, sviluppano la democrazia e la libertà. Per la soluzione dei complessi problemi del debito occorrono una leadership di alto profilo e una azione sistematica. Occorre perciò una agenzia o comitato presso la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale, con l’apporto – per ciascuna delle grandi aree indebitate, vale a dire Africa mediterranea e Medio Oriente, Africa subsahariana, America Latina, Asia, Est europeo – delle Banche Regionali di sviluppo e degli altri organismi multilaterali di dimensione regionale esistente o da promuoversi.

D’altra parte, dovrebbe essere sempre più chiaro che il futuro della pace e la ricerca delle basi della pace sono legati alla prospettiva di nuove realtà regionali, fondate sulla cooperazione fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo e sul rispetto dei diritti e delle identità dei vari popoli. Occorre progettare le basi istituzionali, le carte di tali entità regionali e delle nuove forme di cooperazione di largo respiro, facendo uscire dallo stadio di proposte di principio i suggerimenti che sono intervenuti da sedi, le più autorevoli, nell’ultimo periodo, per le grandi regioni in crisi. Sviluppo economico, pace, rispetto dei diritti dei popoli sono tre componenti inscindibili di tale disegno, su cui mi permetto di richiamare l’attenzione internazionale.

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