Contesto, lo Us Institute of Peace (Usi) di Washington – istituzione federale fondata dall’amministrazione Reagan nel 1984 che riceve fondi dal Congresso con l’obiettivo di promuovere la pace. Su palco di un evento organizzato dall’Usi, il segretario alla Difesa americano, Jim Mattis, che dice: “Con una soluzione a lungo termine, e con lungo termine intendo tra 30 giorni a partire da oggi, vogliamo vedere tutti attorno a un tavolo di pace basato su un cessate il fuoco, su un ritiro dal confine e poi sullo stop dei bombardamenti, che permetterà all’inviato speciale dell’Onu, Martin Griffiths (che sta già facendo molto bene) di riunire in Svezia [le parti] e porre fine a questa guerra”.
Il segretario parla della guerra in Yemen, il conflitto tra i ribelli nordisti Houthi, che hanno collegamenti politico-militari con l’Iran, e le forze esterne intervenute per salvare – senza risultati – la situazione. Quest’ultima è una mobilitazione militare guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi, a cui hanno aderito anche altre nazioni del mondo sunnita con l’intento di riappacificare il paese, in via formale, ma con l’obiettivo in via più subdola di combattere l’Iran su un terreno misto.
Le dichiarazioni del capo del Pentagono sono state riprese a stretto giro dal segretario di Stato, Mike Pompeo: “Gli Stati Uniti invitano tutte le parti a sostenere l’inviato speciale delle Nazioni Unite Martin Griffiths nel trovare una soluzione pacifica al conflitto in Yemen”. “Tutte le parti” e “soluzione pacifica” al conflitto sono le parole chiave della nota ufficiale del dipartimento di Stato.
Washington ha sostenuto l’intervento saudita: lo ha fatto fornendo armamenti e logistica aerea (rifornimenti), e in via più discreta assistenza su attività di intelligence e ricognizione. L’ottica è stata il mantenimento dell’alleanza con Riad e il contrasto alle attività d’influenza e ingerenza dell’Iran, nemico americano e dei suoi alleati regionali (un gruppo articolato che va dal Golfo fino a Israele).
Ora però la campagna saudo-emiritani comincia a essere pesante: dozzine di migliaia sono state le vittime civili, molti morti causati dalle bombe americane – che gli attivisti delle associazioni sui diritti umani, autori di diverse denunce, hanno stigmatizzato con foto e ricostruzioni. I sauditi conducono raid aerei quasi indiscriminati sulle aree occupate dai ribelli, e la situazione comincia a diventare imbarazzante (anche perché escono foto-reportage, come quello di Declan Walsh e Tyler Hicks per il New York Times, che raccontano con immagini strazianti la realtà delle condizioni di vita drammatiche in cui sono ridotti migliaia di yemeniti: le foto sono talmente potenti che il ministro della Difesa francese, Florence Parly, ha reagito chiedendo lo stop della guerra).
Oltretutto lo stallo è completo e il fronte difeso dagli Houthi (che hanno armi anche grazie a quegli sfumati collegamenti con l’Iran) non sembra arretrare davanti alla poderosa, tecnologica e costosa macchina da guerra messa in campo dal Golfo attraverso strumenti fabbricati in Occidente.
Gli scarsi risultati, le stragi di civili (l’ultima il 24 ottobre, con 16 persone ammazzate in un bombardamento saudita su un mercato), e il peso dell’Arabia Saudita che sta cercando di risolvere la catastrofe del caso Khashoggi, hanno innervosito i congressisti americani, che soffrono anche a livello di feedback elettorale la fastidiosa situazione – per esempio, il finanziatore repubblicano Charles Koch ha lavorato per costruire una corposa compagine bipartisan al Congresso, appoggiato dal deputato californiano democratico Ro Khanna, per fermare il sostegno americano alle operazioni saudite in Yemen.
Situazioni simili riguardano anche altre nazioni europee – come l’Italia, la Germania, la Francia e il Regno Unito – che sostengono o con la vendita di armamenti o con presenze più discrete la campagna saudita e che si stanno trovando in difficoltà a sostenere questa posizione con i propri cittadini; sebbene come ricorda il sito Valigia Blu la guerra in Yemen è ancora poco conosciuta (un sondaggio di YouGov dice che il 42 per cento degli inglesi non è a conoscenza).
Attenzione: Mattis ci ha tenuto a evidenziare che la posizione presa all’amministrazione americana in merito alla richiesta di cessate il fuoco in Yemen è staccata dal caso che riguarda Jamal Khashoggi, il giornalista saudita ammazzato da una squadraccia dei servizi segreti nel consolato del suo paese a Istanbul (una vicenda il cui effetto è diventato internazionale e potentissimo e che la Germania ha usato per sospendere la vendita di armi ai sauditi, da tempo in discussione per via dello Yemen).
La dichiarazione congiunta di due pezzi grossi dell’amministrazione americana segna un precedente sulla crisi yemenita e significa che Washington ha deciso di andare contro un’operazione che Riad considera strategica – la riconquista dello Yemen, considerata da Riad un problematico cortile del palazzo reale. “Il momento è ora per la cessazione delle ostilità” dice Pompeo nella sua dichiarazione, in cui parla apertamente degli attacchi missilistici dalle aree controllate da Houthi verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, ma anche “degli attacchi aerei della Coalizione (ossia quella a guida saudita, ndr) devono cessare in tutte le aree popolate dello Yemen”.