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L’Italia è un Paese che non vuole crescere. Il caso trivelle visto da Alberto Clò

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C’è chi parla di populismo energetico. E chi di scarsa conoscenza delle moderne tecniche di perforazione. Le trivelle continuano a dividere, dentro e fuori il governo. Movimento Cinque Stelle e Lega hanno raggiunto un accordo che prevede uno stop di 18 mesi alle operazioni per la ricerca di idrocarburi in mare, durante i quali l’esecutivo si impegnerà a redigere un piano nazionale trivelle, regolamentando il rilascio delle concessioni. E forse a modificare quel decreto Sblocca Italia che definiva “strategiche” le attività di upstream, perforazioni in primis.

Nel conto ci sono da mettere anche le possibili richieste di risarcimento da parte delle aziende che da mesi cercano petrolio e gas sui fondali italiani. Pochi giorni fa, poi, per poco il governo pentaleghista non perde un pezzo, il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, pronto a rimettere il mandato se non si fossero congelati immediatamente tutti i permessi. Una situazione complessa, a tratti surreale, dove c’è un Paese che ha delle risorse nel sottosuolo e non le sfrutta (qui l’intervista all’economista dell’Ocse, Salvatore Zecchini), su cui Formiche.net ha chiesto il parere di Alberto Clò, docente all’Università di Bologna e già ministro dell’Industria nel governo Dini.

“Ci vorrebbe un po’ di memoria storica in questo Paese. Dal 2013 in poi abbiamo avuto Strategie energetiche nazionali, le cosiddette Sen, che hanno attribuito nel tempo rilevanza strategica a questo tipo di attività”, spiega Clò. “In mezzo c’è stato il referendum sulle trivelle, che però è fallito. Il punto è che le imprese hanno preso sul serio questo impegno dei governi a portare avanti le attività di upstream e ora invece tutto viene messo in discussione. Il risultato è che nel giro di cinque anni siamo tornati al punto di partenza, come se le Sen o lo Sblocca Italia non ci fossero mai stati”.

Secondo l’economista bolognese, “da questo momento si perderanno opportunità enormi. Il governo ha raggiunto un accordo per una moratoria di 18 mesi, ma nessuna azienda aspetterà tanto. Chi avrebbe voglia di attendere un anno e mezzo e poi magari vedersi prolungato lo stop? Nessuno. Le aziende che finora hanno creduto agli impegni degli ultimi governi, adesso ci abbandoneranno, se ne andranno magari al di là dell’Adriatico dove si stanno mettendo a gara concessioni per l’esplorazione, mentre da noi niente. Come possono fidarsi le imprese di noi, se prima diciamo una cosa e poi cambiamo idea? Questa moratoria è un’assurdità che certifica ancora una volta la volontà di questo Paese di rimanere importatore di energia e non produttore. Preferisce continuare a comprare il gas dalla Libia, dall’Algeria”.

Anche puntare sulle rinnovabili per tentare di sopperire alle mancate trivellazioni è un’idea un po’ astratta? “Sì perché con tutto il bene del mondo le rinnovabili non riusciranno per molto tempo a colmare il gap lasciato dalla mancanza di idrocarburi. Anche questo, come la moratoria, mi sembra uno stratagemma per non fare investimenti, non crescere e rimanere dipendenti, quando abbiamo l’energia sotto casa. C’è chi parla di salvare l’ambiente, va bene, ma al netto delle moderne tecnologie che aiutano a prevenire gli incidenti, che ne sarà dell’occupazione? Degli investimenti? Delle bollette meno care? Ho sentito che le trivelle rappresentano una minaccia all’ecosistema delle tartarughe. Ma allora la Tav, che è un’opera molto più grande che cosa dovrebbe fare, quante specie minacciare?”.

 

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