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Chi ha vinto (e chi ha perso) nell’intesa tra Italia e Cina. L’analisi di Pieranni

italia

L’attenzione di Pechino per l’Italia – e per alcune regioni strategiche in particolare, come la Sicilia – non è casuale, ma frutto di scelte precise per “accerchiare” l’Europa. A sottolinearlo è Simone Pieranni, inviato a Pechino per il Manifesto, dove lavora al desk Esteri. In una conversazione di Formiche.net il giornalista – fondatore di China Files e autore del libro “Cina globale” – spiega perché la firma di Roma a un accordo commerciale come il Memorandum d’intesa sulla Via della Seta è innanzitutto politica, e rischia di avere non solo ripercussioni geopolitiche nel Mediterraneo, ma più in generale nei rapporti finanziari e economici in altre zone del mondo.

Facendo un bilancio dell’intesa sulla nuova Via della Seta e della visita di Xi Jinping, chi ci ha guadagnato maggiormente tra Italia e Cina?

Dovremo vedere bene poi l’attuazione degli accordi. Ma in un parallelo un po’ complicato da fare credo che il peso politico dell’accordo per la Cina sia maggiore dei benefici economici per l’Italia, anche perché si tratta di accordi non troppo distanti da altri effettuati in precedenza.
Nel 2014 il business forum con Matteo Renzi presidente del Consiglio concluse 20 accordi commerciali per un valore di 8 miliardi di euro (Renzi disse mi pare “più di 8 miliardi”). Ieri Luigi Di Maio ha detto 2,5 miliardi, potenzialmente 20. La differenza rispetto ad allora, quindi, mi pare sia solo la firma del Memorandum d’intesa sulla Via della Seta. Che è una firma “politica”. Si rafforza l’immagine di accordi commerciali di “sistema”, ma alla fine il dato più macroscopico, e credo anche mediatico, è quello politico.

Come è stata “venduta” politicamente in Cina la visita di Xi in Italia?

La Cina nel momento in cui afferra un partner ne diventa difensore. Quindi in Cina si è difesa la scelta dell’Italia. Ma si è anche evidenziato, e non poco, il fatto che è l’Italia ad avere bisogno di aiuto economico. E si è invece molto sottolineato il risultato politico della Cina, come ovvio. E non sono mancati naturalmente i riferimenti alle ingerenze Usa. Insomma questo accordo arriva anche in un momento complicato per la Cina, tra scontro sui dazi, Ue e una crescita economica che rallenta.

In Italia, ha evidenziato Formiche.net, è stato principalmente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a chiedere una intesa equilibrata, mentre quasi tutta l’opposizione, in particolare il Pd, ha dimostrato distacco.

Si tratta di un fattore di cui si è parlato poco. Alcuni elementi del Pd come Ivan Scalfarotto hanno criticato la firma, ma si sono limitati a constatazioni che bene o male abbiamo fatto tutti. Per la sinistra era una grande occasione: dire Via della Seta significa dire logistica. Significa lavoro e dunque garanzie e applicazioni di standard europei. Rischiamo di fare lo stesso errore compiuto dall’Occidente quando la Cina si è aperta. Abbiamo accettato il livello di sfruttamento e assenza dei diritti dei lavoratori cinesi per andare a produrre là in condizioni migliori dal punto di vista aziendale – salari bassi, ritmi di lavoro altissimi, assenza di un vero sindacato, eccetera – anziché richiedere questo genere di diritti. Ora rischiamo di portare quel sistema nella gestione del lavoro anche sulle rotte della Via della Seta che più ci riguardano. Dalla sinistra mi sarei aspettato la richiesta in modo energico di garanzie anche in termini sociali, oltre che geopolitici, anche da alcune parti di una sinistra che possiamo definire filocinese per un mero discorso anti imperialista che sinceramente oggi non ha senso. La Via della Seta è un progetto di globalizzazione a guida cinese e quindi dalla sinistra mi sarei aspettato un discorso diverso da “siamo alleati degli Usa” o “finalmente la Cina ci libera dagli Usa”. Ma per fare questi ragionamenti serve una visione del futuro che si basa pure su analisi sensate di come sta andando il mondo. La Cina bene o male incarna un tipo di espansione commerciale che sfrutta i meccanismi esistenti, ma ne creerà di nuovi. Dovremmo cercare di capire quali saranno studiando quanto accade in Cina e in Asia invece di parlare a vanvera; parlo della sinistra naturalmente.

Restando sulla logistica, alcuni osservatori hanno notato una ulteriore ambiguità nell’accordo. Nel testo del Memorandum. Si legge: “Le Parti esprimono il loro interesse a sviluppare sinergie tra l’iniziativa Belt and Road, il sistema italiano di trasporti ed infrastrutture – quali, ad esempio, strade, ferrovie, ponti, aviazione civile e porti – e le Reti di Trasporto Trans-europee (Ten-T)”. L’Asse numero 3 delle Ten-T è il Corridoio Mediterraneo che comprende il Tav. Firmando l’intesa il governo ha in pratica detto Sì al Tav?

Questo è un aspetto che ho scritto fin dalla bozza del memorandum uscito su Euractiv. È chiaro che la Cina non pensa certo di fare andare le merci sui tir: ha bisogno di velocità. In Cina, non a caso, nelle settimane precedenti la firma si erano visti parecchi articoli dove non si lodava certo l’indecisione italiana sul Tav. Anche in questo caso il governo finge di non porsi il problema. Ma basta vedere quanta alta velocità ha sviluppato la Cina in casa e ovunque.

Un altro aspetto molto dibattuto è stato quello relativo alle possibili ripercussioni di sicurezza. Gli esperti di questo settore notano che Pechino rafforza la sua presenza anche in regioni dove sono presenti basi militari importanti anche per la Nato: Sardegna, Puglia e ora Sicilia, dove ci sono Niscemi e Sigonella (e da dove passano cavi sottomarini per le comunicazioni globali). È un caso o una scelta geopolitica calcolata?

Non credo sia un caso e penso rientri in una sorta di “pivot to Europe” della Cina, ricordando il “pivot to Asia” di Barack Obama. Ai cinesi piace il “go” e Obama l’aveva capito. Donald Trump invece gioca a scacchi, vuole mangiare le pedine. I cinesi invece continuano ad accerchiare. Capiremo in futuro se sia una scelta molto voluta o solo frutto di una serie di coincidenze, ma credo che i cinesi siano ben consci delle zone dove rafforzano la propria presenza. In questo caso credo sia normale che una potenza “utilizzi” un Paese più debole per giocare la propria partita. Quanto alle scelte dell’Italia credo che ogni governo abbia la legittimità di muoversi come meglio crede a livello internazionale, ma bisogna conoscere chi diventa proprio alleato. Ho idea che si siano sottovalutati molti fattori. La Cina ha un atteggiamento pacifico, si parla da sempre di “ascesa pacifica” e finora ha mantenuto un atteggiamento molto guardingo fuori dall’Asia, dove invece ha comportamenti molto muscolari. Il problema quindi non credo sia la Cina in sé, ma come ci si relaziona e quanto la si conosce. E la base di ogni relazione internazionale è la credibilità di un Paese sullo scacchiere internazionale.

Sempre in tema di sicurezza, alla fine nel Memorandum è rimasta la parola “telecomunicazioni” che lascia pensare – pur in assenza di riferimenti espliciti – a una futura cooperazione strutturata nello sviluppo della rete 5G e a un ruolo per i colossi cinesi come Huawei e Zte. Si tratta di una circostanza vista di cattivo occhio dall’alleato statunitense. Che effetti avrà?

Credo che cercheranno di dire che si tratta di una “cornice”, ancora, ma prima o poi i nodi vengono al pettine. La questione Huawei ad esempio: bisognerà fare delle scelte. L’affaire andrà gestito con strategia, magari facendosi forza di analoghe posizioni in Germania. Ma è chiaro che anche con altri Paesi Ue non mi pare siamo in grandi rapporti.

Sommando tutti questi aspetti, crede che l’adesione dell’Italia a questo Memorandum possa accelerare uno scontro geopolitico nel Mediterraneo tra Stati Uniti e Cina?

Sicuramente questo Memorandum rischia di avere controindicazioni di questo genere e non solo nel Mediterraneo, ma più in generale nei rapporti finanziari economici in altre zone del mondo. Anche se si è contrari a un’Alleanza atlantica – come parte dei 5 Stelle ad esempio – bisogna pur tenerne conto quando si compiono passi di questa portata. Come nel caso delle telecomunicazioni, presenti alla fine nel Memorandum d’intesa.

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