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Così l’Italia ha fatto da mosca cocchiera con la Cina

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Quando Xi Jinping finirà il suo viaggio trionfale in Europa, l’Italia scoprirà di aver lavorato per il Re di Prussia. Di aver agito come quella mosca cocchiera, posata sulla criniera di un cavallo al galoppo, che insultava il mulo, rinfacciandogli il suo lento andare. Già i primi risultati si sono visti nell’incontro del Presidente cinese, con il principe Alberto e la consorte Charlene. Nel principato di Montecarlo sventolerà la bandiera di Huawei, che garantirà la copertura totale di quel piccolo santuario con la tecnologia del 5G. Una piccola testa di ponte nel cuore dell’Europa, con buona pace dei dubbi e delle giuste pressioni dell’Amministrazione americana.

Se non vi fosse stata l’iniziativa italiana a favore della “nuova via della seta”, forse sarebbe successo lo stesso, ma forse no. Certo il vantaggio italiano lo si è subito percepito, grazie a quel carico di arance che da Palermo giungerà a Pechino. Ma volete mettere? La sicurezza ostentata da Luigi Di Maio rimane inossidabile. Dobbiamo difendere il “Made in Italy”, riequilibrare la bilancia commerciale, oggi passiva con la Cina e favorire gli investimenti esteri. Cose di normale buon senso con altri interlocutori che praticano le regole di mercato. Un po’ meno per chi come la Cina, dopo quasi 20 anni di partecipazione al Wto (l’organizzazione del commercio mondiale) non ha ancora conquistato la qualifica di market economy.

Questo significa forse decretare una sorta di embargo nei confronti del Paese dei record, quanto a tasso di crescita, possibilità di business e via dicendo? Sul piatto della bilancia non c’è solo il possibile (si spera) reciproco guadagno. C’è anche il lato oscuro della politica. Per cui, alla fine, il dare e l’avere devono in qualche modo pareggiare. Ed è invece qui che i conti non tornano. Il successo cinese, infatti, è stato indubbio. Per la prima volta un Paese del G7 firma un manifesto che ”non costituisce un accordo internazionale da cui possono derivare diritti ed obblighi di diritto internazionale” (Paragrafo 4 del memorandum). Ma che ha un grande valore simbolico.

E non solo perché l’Italia, sebbene in crisi, è ancora il cuore dell’Europa. Nonché membro fondatore della NATO oltre che dell’Unione europea. Ma, soprattutto, perché la firma di quel manifesto é avvenuta nel segno di una rottura con i propri tradizionali alleati. In precedenza, altri Paesi europei avevano firmato intese analoghe. Ma lo aveva fatto in una cornice ben diversa. Senza eccessivi clamori e nella relativa generale indifferenza. Si trattava, per altro, di Paesi che non avevano la stessa importanza strategica. Dislocati, come erano, lungo l’asse balcanico, bisognosi di risorse e di capitali per uscire (specie negli anni passati) da uno stato comatoso, in un rapporto con il resto dell’Europa tra l’inesistente, il conflittuale (Ungheria) o il recriminatorio. Com’era avvenuto nel caso della Grecia o dello stesso Portogallo.

L’Italia, al contrario, ha pagato un prezzo rilevante. Isolata rispetto agli Stati Uniti, apertamente criticata dall’Unione europea. Che le ha subito presentato il conto. All’incontro con Xi Jinping, per i vertici europei, vi sarà Emmanuel Macron ed Angela Merkel. L’Italia, al pari di qualsiasi altro partner dovrà accontentarsi di essere rappresentata da Jean Claude Junker. Una sorta di ulteriore retrocessione, che contribuisce ad esaltare l’importanza dell’asse franco – tedesco, così contestato dalla maggioranza giallo-verde. Si può naturalmente sperare che le prossime elezioni europee facciano di tutto questo tabula rasa. Ma in politica estera il realismo è la prima virtù di qualsiasi Governo.

Un effetto positivo, seppure involontario, il dilettantismo italiano, comunque, lo ha avuto. Ha costretto l’Europa ad aprire gli occhi su una realtà complicata, che in passato aveva cercato di gestire lasciando ciascuno libero di agire, come meglio riteneva. Ed ecco allora gli accordi, a macchia di leopardo, con il gigante cinese, da parte un po’di tutti. Accordi, unitamente a quelli con la Russia, che avevano contribuito non poco a raffreddare i rapporti con l’alleato americano. Francia e Germania, che ora criticano l’Italia, non avevano rinunciato il loro affari più redditizi tanto sul fronte commerciale che su quello finanziario. Ma tutto ciò avveniva nella logica del business as usual. Accordi tra imprese o tra Stati, come la vendita dei 300 Airbus da parte francese, appena concordata tra i due Presidenti (francese e cinese) nel summit di Parigi.

La cosa che, invece, ha fatto irritare soprattutto gli americani, è stata la kermesse che ha accompagnato, questa volta, la visita di Xi Jinping in Europa, ma organizzata dall’Italia. Tenuto conto del fatto che il Presidente cinese aveva compiuto, in passato, analoghe missioni, ma senza il relativo frastuono ideologico. Altro elemento ritenuto inquietante è stata la mancanza di qualsiasi preventiva comunicazione o accordo con i propri alleati. Per cui il Dipartimento di stato americano si è trovato un po’ di fronte ad un fatto compiuto. Cosa che, anche di fronte all’indeterminatezza del memorandum, ha alimentato più di un sospetto. E poco importa se questa mancanza di comunicazione fosse dovuta principalmente ai contrasti interni al Governo italiano. Con il Ministero dello sviluppo economico deciso a marginalizzare il ruolo della Farnesina.

Comunque, come si diceva all’inizio, alcuni effetti positivi si sono prodotti. Il Consiglio europeo ha dato mandato alla Commissione di definire le nuove regole che dovranno riguardare i rapporti commerciali e finanziari: sia con la Cina, che con altri eventuali partner. Dovrà esservi uno screening degli investimenti esteri. Vecchio pallino francese, per valutarne preventivamente la reale natura. L’Europa dovrà quindi dotarsi di una golden power per inibirli. L’Italia – altra stranezza – si è, tuttavia, astenuta, quasi a dimostrare che il condizionamento cinese è già operante.

Un secondo principio dovrà essere quello della reciprocità. Le regole d’ingaggio dovranno essere bilaterali e non a senso unico, come avviene attualmente. Finora il vantaggio cinese si è manifestato soprattutto nel trasferimento tecnologico. Agli investitori esteri in Cina è stato sempre imposto l’obbligo di fornire le specifiche tecnologiche della relativa produzione. Sulla base del vecchio modello giapponese, quei brevetti venivano prima copiati, quindi perfezionati. Il che ha consentito all’industria nazionale quel grande balzo verso la produzione a maggior valore aggiunto e le nuove frontiere della scienza e della tecnica.

Regole più stringenti dovranno, poi, riguardare la partecipazione agli appalti pubblici. Saranno escluse, in Europa, quelle società che sono partecipate, in modo diretto o indiretto, dallo Stato o dal pubblico. Il fine è quello di evitare possibili distorsioni nella concorrenza, dovute alla maggior potenza di fuoco che hanno quelle imprese che non hanno vincoli di bilancio, potendo essere foraggiate dalle strutture pubbliche. Al tempo stesso, la politica industriale del Vecchio continente dovrà essere rivolta alla creazione di “campioni europei” per far fronte alla concorrenza internazionale: i grandi colossi che battono non solo bandiera cinese, ma anche russa od americana. Per ottenere un qualche risultato è necessario che le regole dell’antitrust domestico diventino meno autarchiche. Vincendo le resistenze di quei Paesi, come il Portogallo, che, in nome dell’ortodossia rischiano di fare il gioco dei potentati stranieri, ben contenti di non trovare sulla propria strada imprese europee in grado di competere.

Questi, quindi, i risultati di quel sasso gettato nello stagno. Solo nei prossimi mesi sarà possibile trarre un bilancio più preciso. Intanto Luigi Di Maio si reca a Washington per spiegare meglio la posizione italiana, accompagnato tuttavia, come gli ha comunicato l’ambasciatore Eisenberg, da un viatico non del tutto favorevole. Mentre Matteo Salvini non fa passare giorno senza prendere sempre più le distanze da una strategia che risente fin troppo della cucina dei 5 stelle. Piccolo pasticcio domestico che lascia presagire nulla di buono.



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