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Perché la Farnesina dovrebbe rivedere metodi e priorità

ricercatori

La firma del Memorandum di intesa con la Repubblica Popolare Cinese è stata aspramente criticata. Ma non sono solo i rapporti tra Italia e Cina che sono posti in contestazione: l’intera politica estera del governo è oggetto di giudizi negativi, per i rapporti con la dirigenza russa, i contrasti con l’Unione europea, le incertezze sul Venezuela di Maduro, i conflitti con la Francia, le asperità con la Germania, l’appoggio all’Ungheria di Orban. Dopo quasi un anno di governo gialloverde, è arrivato il momento di fare il tagliando alla Farnesina, per cercare di capire caratteristiche e limiti della politica estera dell’esecutivo Conte, in termini di metodi adottati, priorità perseguite e interessi tutelati.

Sul piano delle alleanze, il governo si è mosso in maniera ambigua, intrattenendo rapporti bilaterali ad ampio spettro, al di fuori del quadro comunitario e delle alleanze militari e geopolitiche. Tale opzione è stata seguita sia per la mancanza di una strategia di fondo sottesa alle relazioni internazionali, sia per la concomitante spinta dei due partiti di maggioranza, divisi su valori e interessi di riferimento.

E così, il rapporto con gli Usa è stato sempre confermato come prioritario e fondamentale per l’Italia, ma nei fatti sono state assunte posizioni e iniziative che hanno trascurato tale rapporto, sul versante della Russia ma soprattutto della Cina, contribuendo, pur nel limitato ambito di azione dell’Italia, a un riassetto non concordato col partner americano degli equilibri strategici internazionali e producendo una perdita di affidabilità del nostro Paese sul piano delle alleanze. E l’anomalia della posizione italiana sulla vicenda del Venezuela, segnata da un isolamento nel mondo occidentale e da una prossimità alle posizioni russe, non ha certo giovato alle relazioni con Washington.

Il metodo della bilateralità non concertata ha quindi danneggiato il rapporto con l’America di Trump ma nel contempo non ha portato risultati utili in termini politici o economici: l’Italia resta debole a livello diplomatico e i benefici attesi dai rapporti bilaterali stentano a prodursi, sia perché le difficoltà economiche della Russia ostacolano programmi significativi, sia perché gli investimenti cinesi in Italia hanno delle cospicue controindicazioni.

In particolare, per quanto concerne le relazioni con la Cina, sarà complicato gestire un’intesa che riguarda anche lo strategico settore delle telecomunicazioni e può comportare effetti tutt’altro che positivi: il controllo dei cinesi su importanti aziende italiane, in particolare nell’ambito delle infrastrutture, così come l’eventuale acquisizione di rilevanti quote del debito nazionale, possono indebolire il sistema produttivo nazionale e limitare l’autonomia finanziaria e commerciale del Paese, così come quella politica in tema di democrazia e diritti umani.

Del pari, i rapporti con l’Europa, la Francia e la Germania, si sono contraddistinti per una continua conflittualità, alimentata da rivendicazioni populiste, senza una chiara prospettiva strategica sul piano diplomatico ed economico, diversa da quella di attendere l’esito delle elezioni europee per delegittimare gli attuali leader europei e creare nuovi equilibri politici. Nel frattempo l’Italia resta isolata in Europa, sul piano bilaterale e comunitario, in una situazione di esposizione debitoria sempre più grave e di necessaria collaborazione su vari dossier, immigrazione sopra tutti.

Mentre, in prospettiva, non ha basi solide l’idea che la situazione cambi a seguito di un successo delle forze sovraniste alle elezioni di maggio: i governi europei, quale che sia il risultato elettorale, continueranno a perseguire gli interessi nazionali, seppur nel quadro europeo, sulla base delle relazioni internazionali costruite nel tempo. E l’Italia non si è fatta molti amici negli ultimi tempi.

Ma ci sono i Paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), ai quali il governo Conte, o almeno la sua componente leghista, guarda come a dei partner importanti. Ora, non è dubbio che Orban abbia con Salvini un buon rapporto e che l’Ungheria abbia una tradizione di rapporti commerciali con l’Italia, ma da qui ne corre a immaginare che Budapest diventi decisiva nell’ambito delle nostre relazioni internazionali, sia in Europa sia nel mondo, per i limiti intrinseci di azione e i vincoli politici in cui opera.

Così come sembra problematico immaginare che la Polonia filo-americana svolga un qualche ruolo internazionale a favore dell’Italia, al di fuori del rapporto con gli Usa; ed anzi ci sono elementi, come gli accordi per una presenza di truppe americane in Polonia, che mostrano l’interesse polacco a rafforzare la partnership strategica con gli Usa.

In definitiva, l’attuale politica estera italiana appare contradditoria e ambigua, restìa ad operare in coerenza con le alleanze internazionali dell’Italia repubblicana, con gli impegni delle relazioni europee, con i valori occidentali della nostra società. Ma anche poco efficace, nella misura in cui assume posizioni e prende iniziative dagli esiti incerti e talora controproducenti, frammentandosi in una serie di atti privi di una strategia di fondo; con esiti nefasti in termini di immagine e affidabilità nei consessi internazionali.

La speranza è che si pervenga quanto prima, con un nuovo governo o una rivisitazione degli attuali equilibri dell’esecutivo, all’elaborazione di una politica estera che riscopra i suoi fondamentali e si muova di conseguenza, recuperando coerenza e credibilità presso gli alleati e i partner europei.


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