Il sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico italiano, Michele Geraci, ha dichiarato in un articolo uscito ieri sul Financial Times che l’Italia ha intenzione di firmare un memorandum di intesa per sostenere il maxi programma di investimenti con cui la Cina vuol creare un’infrastruttura geopolitica per collegarsi all’Europa: la Obor, acronimo inglese di One Belt One Road è progetto su cui Xi Jinping sta puntando moltissimo, con investimenti diretti e cooperazioni all’interno degli altri 80 Paesi toccati dal network infrastrutturale sia terrestre che marittimo che passa da Eurasia, Medio Oriente e Africa.
Quello che ha dichiarato Geraci non è una novità assoluta: da gennaio, quando in Italia arrivò il ministro degli Esteri cinese Wang Yi per preparare il terreno alla visita del presidente, le informazioni che circolano a proposito della firma italiana del memorandum con la Cina si sono via via fatte più concrete. Ma nessuno per il momento ha potuto pubblicare il testo del documento – sensibilissimo, dato che in ballo non c’è soltanto il link con la Cina, ma firmandolo l’Italia diventerebbe il primo Paese del G7 e membro fondatore dell’Ue a farlo, e questo potrebbe non piacere troppo agli americani, alleati e amici italiani che hanno ingaggiato un grosso confronto globale con Pechino. “Il negoziato non è ancora finito, ma è possibile che si concluda in tempo per la visita di [Xi]”, ha detto il sottosegretario al giornale economico inglese: “Vogliamo essere sicuri che i prodotti made in Italy possano avere più successo in termini di volume di esportazioni in Cina, che è il mercato in più rapida crescita al mondo”.
Quella che Geraci prova a far passare come una decisione Italia First è una posizione che altre parti del governo italiano non sembrano condividere. Vedere per esempio le critiche che il vicepremier Matteo Salvini, leader della Lega (e colui che aveva proposto Geraci al Mise), ha diffuso tempo fa via Twitter contro la presenza cinese in Africa. Anche qui, nessuna novità su queste distanze: mentre Salvini criticava gli investimenti di Pechino nei paesi africani come forma di neocolonialismo, il Mise firmava accordi di cooperazione con la Cina in Africa.
La linea-Geraci non piace troppo nemmeno a Washington, si diceva. Non è una novità nemmeno questa (i diplomatici di stanza in Italia da tempo hanno avviato un lavorio con i funzionari del governo italiano e via via lo hanno fatto sapere discretamente alla stampa). Anche il FT sa di questa irritazione americana, tanto che nello stesso pezzo in cui il sottosegretario italiano dichiara che è tutto pronto per l’atto dal grosso valore politico (e mediatico) con cui l’Italia firmerà il memorandum con la Cina, il quotidiano inglese raccoglie pure il commento del portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale statunitense, Garret Marquis. Il megafono dell’organo dove si elaborano gli interessi strategici della presidenza americana ha spiegato che gli Stati Uniti considerano la Obor un’iniziativa “fatta dalla Cina, per la Cina”: “Siamo scettici sul fatto che l’approvazione del governo italiano porterà i benefici economici sostenuti al popolo italiano e potrebbe finire col danneggiare la reputazione globale dell’Italia nel lungo periodo”. Marquis, sul FT, ha parlato apertamente di quelle manovre diplomatiche con cui gli Stati Uniti hanno da tempo espresso preoccupazioni per questa vergenza italiana verso la Cina.
Geraci dice che la firma sul memorandum potrebbe arrivare proprio quando Xi sarà in Italia: la visita, la prima ufficiale, è prevista per il 22 marzo (in realtà pare sia ancora in fase di conferma, secondo quanto ci dicono fonti all’interno del governo). Quelli saranno giorni intensi per il cinese. Il 21 sarà a Bruxelles (per altri incontri sostanziali: ieri la Commissione Ue ha avviato le procedure di screening sugli investimenti diretti stranieri con un occhio palesemente rivolto alla Cina; la procedura ha visto l’astensione dell’Italia). E poi il 27 marzo Xi sarà a Mar-a-Lago, ospite del presidente americano Donald Trump.
La Casa Bianca – che sembra in dirittura d’arrivo per chiudere un grande accordo sul commercio con la Cina per stabilizzare il deficit import/export e spingere Pechino a riforme strutturali interne (forse, anche in quel caso, sarà proprio Xi a metterci la firma simbolica sull’intesa durante la sua visita in Florida) – teme che il sostegno al progetto cinese fornito da partner strategici come l’Italia possa screditare il piano Usa di contrasto al Dragone, che secondo l’ottica dell’amministrazione Trump ha come elemento nevralgico la creazione di un blocco compatto occidentale anti-Cina.
Ma l’Italia sembra già essersi portata avanti verso Oriente. Due giorni fa, il presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mar Ligure Occidentale, Paolo Emilio Signorini, ha confermato al Secolo XIX – che aveva già pubblicato un’anticipazione il giorno precedente – che durante la visita italiana di Xi (qui data per certa, evidentemente), Roma firmerà il memorandum sulla Nuova Via della Seta (Obor) e sotto questa “cornice strategica” il porto di Genova “farà un accordo con la China Communications Construction Company”, azienda di ingegneria infrastrutturale controllata da Pechino. Il capoluogo ligure entrerà formalmente nell’orbita cinese, strada già in parte anticipata da Venezia, la cui autorità portuale ha firmato un accordo di cooperazione con il porto del Pireo, che è di proprietà di un’azienda statale di Pechino – questa stessa traiettoria potrebbe essere seguita da Trieste e Ravenna, e la visita di Xi, la firma del protocollo di intesa quadro, i due precedenti di Venezia e Genova, il clima generale, nonché il sostanziale placet dal ministero dello Sviluppo economico, possono essere l’humus perfetto per questo genere di accordi.
La posizione italiana sul dossier Obor in realtà non è troppo cambiata tra il governo attuale e i precedenti, e la chiusura di queste intese è in effetti frutto di colloqui avviati da tempo – per non parlare poi di quanto gli investimenti cinesi in Italia siano già penetrati nel network strategico del Paese: un esempio, il colosso cinese State Grid è dentro Cdp Reti, l’asset con cui la Casa Depositi e Prestiti controlla Snam, rete gas, e Terna, rete elettrica nazionale; un altro è la presenza, col 5 per cento, del Silk Road Fund (un fondo collegato direttamente a Obor) in Autostrade Spa. Altri due esempi sulla posizione di Roma: uno, quando nel 2017 il governo cinese presentò in pompa magna il progetto, uno dei pochi leader occidentali presenti fu il premier italiano Paolo Gentiloni (espressione di un partito che attualmente si trova all’opposizione); due, l’Italia è socia della Aiib, Asian Infrastructure Investment Bank, una banca di investimenti creata quasi ad hoc per Obor sui cui gli Stati Uniti hanno formalmente espresso preoccupazioni e lavorato per creare opposizione (con pressioni su alleati del 5 Eyes come l’Australia e la Gran Bretagna quando hanno deciso di entrare in Aiib).
Se Xi e il governo italiano non dovessero firmare il memorandum a marzo, l’appuntamento prossimo è ad aprile, quando la Cina organizzerà il secondo grande summit sulla Via della Seta. E quella è un’altra data da segnare, perché oltre che da Washington, qualche problema potrebbe arrivare pure da Pechino, dove non è vista proprio positivamente la posizione presa dall’Italia sulla Tav. D’altronde il progetto di Xi ha come cuore spingere per la costruzione di infrastrutture, e l’idea che parti del governo italiano non vogliano la Torino-Lione non è proprio in linea. Ed è per questo che da settimane i media cinesi parlano dell’Italia, non riuscendo a capire perché il governo vuole cooperare con un piano di Pechino che richiede infrastrutture importanti, quando a Roma si discute se farne o meno una come la Tav.