La scorsa settimana la visita di Re Salman in Tunisia è stata seguita da un barrage mediatico che ha dimostrato il forte interessamento che il regno ha per il paese nordafricano (“Non ricordo niente del genere da parte di Riad, né del Maghreb né altrove”, ci dice una fonte molto ben informata sulle dinamiche saudite).
L’Arabia Saudita guarda alla Tunisia: ufficialmente Salman era nel paese per partecipare al vertice della Lega Araba che ha respinto il riconoscimento americano sulla sovranità israeliana nel Golan, ma la delegazione guidata dal sovrano (e non dall’erede al trono, Mohammed bin Salman: anche questo è un dettaglio non da poco, segnale che Riad per trattare determinati temi usa ancora il re) era composta da politici, businessman e funzionari di primo livello.
Chiusi accordi economici (fondi per la ricostruzione di aree urbane e l’acquisto di prodotti petroliferi sauditi da parte della tunisina Stir), e soprattutto la presidenza Essebsi ha incassato un sostegno politico non indifferente in vista delle prossime elezioni, dove saranno contrapposti sostanzialmente due schieramenti, uno più legato a un vecchio link con il Qatar e un’altro più allineato al fronte saudita-emiratino. Riflesso tunisino della politica transnazionale del Golfo.
Il gioco di Riad ha diversi piani di interpretazione e punti di caduta. A partire dai perché la Tunisia viene considerata dalla comunicazione del regno – che difficilmente svela aspetti differenti da quelli che il governo vuol marcare – un paese strategico. Primo, il territorio tunisino è geograficamente centrale, è la punta del Maghreb verso l’Europa, ma è anche il paese che fa da saldatura tra East Maghreb e West Maghreb.
E qui un secondo aspetto: l’Arabia Saudita può agganciare più facilmente alcuni paesi nel suo sistema, correlato a quello emiratino, della parte orientale della regione africana, vedi Egitto e Libia, ma ha più difficoltà a lavorare su Algeria e Marocco, che hanno maggiore indipendenza (e standing). In quest’ottica la Tunisia diventa una sorta di elettore indeciso da attirare a sé.
Il valore geografico si riflette ancora su un terzo aspetto: l’accerchiamento della Libia. L’aumento dell’interessamento saudita alle sorti libiche è segnato da segnali più o meno discreti, dettagli, poi diventati segnali evidenti. Si è partito per esempio con l’appoggio alle fazioni salafite vicine al Maresciallo di campo Khalifa Haftar. Ma poi il 27 marzo Riad ha confermato l’intenzione di uscire dal profilo discreto tenuto finora sulla crisi libica – per anni terreno di scontro all’interno del Consiglio per la Cooperazione del Golfo tra le posizioni pro-Fratellanza del Qatar e quelle pro-Haftar degli Emirati Arabi Uniti – e ha ospitato a Riad il generale che controlla l’Est del paese e che adesso sembra diretto verso Tripoli.
Haftar è stato accolto a corte con il classico protocollo riservato a capi di stato e di governo (sebbene il libico sia soltanto il leader di una milizia locale, anche se con ambizioni ben più ampie). Ha visto Re Salman (con ampia diffusione di immagini da parte dell’agenzia stampa saudita Spa) e in un colloquio riservato l’erede al trono.
Secondo alcune ricostruzioni, i sauditi avrebbero spinto per entrare in gioco sulla Libia in maniera più attiva perché temono il rischio che il paese possa finire in mano a partiti-milizia islamisti troppo legati ai Fratelli. Il mese scorso Haftar era ad Abu Dhabi, mentre Serraj era in Qatar e in Turchia, rispettivamente il 10 e il 21 marzo. I due più grossi sponsor della Fratellanza musulmana e della visione universalistica. Gli effetti di questo posizionamento saudita si potranno vedere già nella tra il 14 e il 16 aprile, quando in Tunisia – a Ghadames – si svolgerà la Conferenza per la Libia promossa dalle Nazioni Unite.
Intanto, appare chiaro che il regno saudita stia cercando di aumentare il proprio ruolo nel Maghreb. I movimenti nel Risiko servono anche per affrancarsi da un allineamento che ha visto Riad agire nella regione sempre a ruota degli Emirati Arabi. Riad e Abu Dhabi sono alleati solidi, ma i sauditi cercano comunque un’identità di primo piano, per essere una potenza di primo livello. Il quadro è ampio, e riguarda la saldatura dell’area MENA, Middle East North Africa: se in Medio Oriente l’Arabia Saudita ha un ruolo di potenza, nel Nord Africa lo sta costruendo, e sta cercando di allargare la propria sfera d’azione – a novembre dello scorso anno, era stato MbS a visitare la Tunisia, per esempio, che da diversi anni ha anche il ruolo di essere il porto diplomatico dei dossier libici.
Nella regione nordafricana è in corso uno scontro tra le due principali visioni politiche che escono dal Golfo: l’universalismo del Qatar, via Fratellanza musulmana, e il pragmatismo anti-islamista incarnato da Emirati Arabi e Arabia Saudita. Una dichiarazione chiara su questo l’ha rilasciata il ministro di Stato di Abu Dhabi, Anwar al Gargash, al The National, a cui ha spiegato con franchezza che il lavoro che il suo paese e gli alleati sauditi stanno facendo è quello di evitare che nell’area MENA prendano ulteriore spazio visioni islamiste radicali (i Fratelli sono “un completo fallimento”, “la loro letteratura è piena di libri che parlano della segregazione tra uomini e donne”, e non sfugge che questo genere di posizione arriva in una fase in cui gli emiratini hanno lavorato per aprire il dialogo addirittura con il Vaticano e con Israele).
In quest’ottica diventa delicata la posizione italiana, che negli ultimi mesi ha sponsorizzato molto la partnership con il Qatar, mentre in Libia sta entrando di forza l’Arabia Saudita, capofila del blocco di paesi che ha messo Doha sotto isolamento diplomatico due anni fa.
Val la pena di notare alcune cose in ottica Italia. Per esempio, la Tunisia ospita per 370 chilometri il passaggio del gasdotto TransMed (noto anche come “gasdotto Mattei”), che dal reservoir gasifero di Hassi R’Mel, nel deserto algerino, porta il gas dell’Algeria fino a El Haouaria, nella regione di Cap Bon. Il 28 per cento delle importazioni di gas italiano dipende dall’Algeria e dunque dal quel gasdotto, e dunque da quei poco meno di quattrocento chilometri di pipeline tunisina.
E non solo, la realtà tunisina – di cui il premier Giuseppe Conte dice di aver parlato con i membri del governo qatarino durante la visita a Doha di questi giorni – ha una valore anche per il quadro delle migrazioni. La Libia ha infatti importanti rubinetti dei flussi, come Sabratha e Zuawara, a pochi chilometri dal confine tunisino (la punta di Kelibia è distante appena 76 chilometri da Pantelleria, e in generale la costa tunisina è più vicina alla Sicilia di quella libica). Se dovessero essere chiusi, possibile uno spostamento poco più a ovest.
Il quadro ha un ulteriore complessità geopolitica. L’interessamento saudita al Maghreb si abbina a quello per il Corno d’Africa, dove Riad (e la talassocrazia americana) vuol evitare di perdere entrambi i passaggi sullo stretto di Bab al Mandab che porta a Suez, che nel lato arabico è in mano ai ribelli Houthi, indipendentisti yemeniti che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi stanno combattendo anche in funzione proxy anti-Iran. Non è un caso se nella prima visita estera ufficiale il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, sia volato a Riad, dove ha incontrato anche funzionari governativi emiratini (anche qui: riflesso per l’Italia, che sta cercando agganci in Etiopia ed Eritrea: il premier Conte è stato il primo a visitare i due paesi dopo la storica pace dello scorso autunno, processo dove Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno svolto un ruolo significativo da dietro le quinte nel far parlare le parti).
Secondo una lettura più ampia della situazione, si potrebbe pensare che sia in atto una sorta di scambio di interessi: i sauditi penetrano l’Africa a est, lungo il Mar Rosso, e a nord, lasciando a Parigi il dominio della Françafrique. Francia che accetta l’ingresso di Riad nel Maghreb anche perché sullo stesso lato del fronte in Libia – Haftar ha avuto il sostegno dell’Egitto e degli UAE, ma anche dei francesi, infratti. E gli Stati Uniti ugualmente, accettano certe manovre, perché vedono la presenza saudita come un elemento di limitazione delle mire cinesi (e proprio sulle relazioni Riad-Pechino si giocherà il futuro dell’alleanza con Washington).
Nel quadro articolato, va infatti notato anche che Riad è attualmente – insieme a Israele – l’alleato preferito dagli Stati Uniti, che difficilmente si opporranno agli affari sauditi nel Nord Africa, almeno per due ragioni. Primo, il sistema Riad/Abu Dhabi in questo momento permette di evitare l’universalismo qatarino e le tendenze islamiste (è un imprinting dei due nuovi corsi del potere, dopo anni che la diffusione dell’Islam nel mondo è stato affidata ai finanziamenti usciti da quelle corti). Secondo, l’attività saudita (ed emiratina) è sul solco del disimpegno da certi dossier che Washington chiede da diversi anni: progetto per cui gli americani vedono Riad come un compromesso per ora accettabile.