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In Libia decisivi i Paesi del Golfo, non aspettiamoci aiuti dagli Usa. L’analisi di Mercuri

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“Cronache di un Paese sospeso”. Così aveva intitolato un suo libro Michela Mercuri, docente e tra le più appassionate esperte di Libia. Haftar che avanza, gli Usa che annunciano di portare via da Tripoli i propri militari della missione Africom e poi i vertici diplomatici con il G7 in Francia dove sono impegnati i ministri degli Esteri delle massime potenze mondiali per risolvere il rebus di cosa ne sarà della Libia.

Prima del G7 c’è stato anche un Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’incontro di Guterres con Haftar, ma la situazione sul campo non sembra risolversi. Come è possibile mettersi d’accordo quando gli interessi tra i vari Paesi esterni alla Libia sono così diversi? 

Conciliare tutte le posizioni in campo è quasi impossibile e gli ultimi 7 anni ce lo hanno ben dimostrato. Francia, Russia , Emirati arabi uniti, Arabia Saudita ed Egitto hanno sostenuto Haftar fin dalla sua affermazione nel teatro libico. Gli hanno fornito anche armi e supporto militare, forse utili anche a questa sua recente avanzata. Dall’altra parte Qatar e Turchia hanno fatto la stessa cosa con le milizie della fratellanza musulmana che controllano alcune zone di Tripoli e dintorni. Tutti hanno portato avanti una guerra per procura per motivi economici, egemonici e religiosi. Durante la riunione del Consiglio di sicurezza alcuni degli attori che fin qui hanno “sponsorizzato” Haftar (e con tutta probabilità continuano a farlo) hanno emanato una dichiarazione in cui si esprime preoccupazione per l’attività militare in Libia, chiedendo alle truppe dell’Esercito nazionale libico di evitare uno scontro militare. Stando ai fatti che ho accennato, mi sembra più un atto dovuto, per “salvare le apparenze”, che una reale presa di posizione.

Erano mesi che c’erano avvisaglie di questa escalation da parte di Haftar, possibile che il governo italiano non sia stato capace di intervenire o di trovare soluzioni per impedire questa impetuosa avanzata?

Il governo italiano dopo il parziale successo della conferenza di Palermo, forse perché impegnato in altre faccende interne e internazionali, ha preso un po’ “sottogamba” la questione libica. Si è forse accontentato di aver bloccato gli sbarchi senza guardare ciò che accadeva oltre la costa. Secondo alcuni analisti, tuttavia, i nostri servizi erano a conoscenza delle intenzioni del generale e avevano informato il governo. L’Italia, però, potrebbe non essere stata in grado di evitare tale escalation a causa del mancato supporto degli alleati, specie degli Usa fin qui vicini alla posizione del nostro governo in Libia. Da questo punto di vista Trump potrebbe aver preferito assecondare i desiderata degli storici alleati sauditi, molto più “utili” dell’Italia, che hanno spinto per l’avanzata di Haftar. Il 28 marzo scorso, infatti, il generale si è recato a Riad anche per parlare del futuro della Libia. Che abbia ricevuto in questa occasione il placet definitivo, nonché le garanzie economiche e militari, per avanzare verso Tripoli?

È ovvio che l’obiettivo del Feldmaresciallo sia politico, oltre che militare. Fin dove può spingersi?

Difficile dirlo vista l’imprevedibilità degli eventi che stanno accadendo nel paese in queste ultime ore. Al momento Fayez al Serraj resiste all’offensiva di Khalifa Haftar, che sembra aver fermato la sua avanzata su Tripoli, grazie all’intervento delle milizie di Misurata, per lo più fedeli al Governo di unità nazionale. Fin qui, sia nella sua avanzata nel sud sia in quella verso l’ovest, Haftar ha puntato molto sull’accordo con i gruppi locali, alcuni dei quali prima fedeli a Serraj. Il tutto con poco spargimento di sangue. Ore le cose sembrano cambiare. I morti aumentano e l’offensiva sta assumendo sempre più le sembianze di una guerra civile. Haftar aveva fin qui giustificato la sua azione presentandosi come il “salvatore della patria” per fare perno su una popolazione stanca del caos e dello strapotere delle milizie e sull’incapacità di Serraj di controllarle e riportare la pace a Tripoli. Ne deriva che se vuole conservare una legittimità, interna e internazionale, non può permettersi un bagno di sangue. Questo potrebbe fermarlo, anche su “consiglio” dei suoi alleati che hanno tutto l’interesse a che Haftar non venga mal visto dalla popolazione. È possibile, dunque, che sia una prova di forza utile ad accaparrarsi un buon bottino di milizie ed alleati interni per la (possibile) futura conferenza di Ghadames o comunque per accrescere il suo peso politico e i consensi in vista delle future elezioni.

L’Italia che firma un memorandum d’intesa con la Cina, ha posizioni ambigue sulle sanzioni alla Russia o sul destino di Maduro, può attendersi un aiuto dagli Usa a cui è stata invocata una cabina di regia? Stamattina l’Africom ha ritirato il contingente da Tripoli, ma prima Trump aveva inviato un ambasciatore speciale in Libia?

L’Italia sta pagando queste sue posizioni nei confronti degli Usa, che avevano dato mano libera al nostro governo per organizzare il vertice di Palermo. L’idea di una conferenza internazionale sulla Libia organizzata dall’Italia era nata, infatti, in occasione della visita di Conte a Washington nel luglio del 2018 e ha trovato fin dall’inizio l’appoggio del presidente degli Stati Uniti favorevole a un rinnovato impegno italiano nel teatro di crisi del Paese nordafricano. Ora le cose sono cambiate e l’Italia, anche per i motivi che ho ricordato poco sopra, difficilmente potrà contare su Trump. Paradossalmente sarebbe molto più facile tentare di intavolare un dialogo con Mosca, alleata di Haftar, ma fin qui mediamente collaborativa con l’Italia per la questione libica. In sintesi, la presenza di un ambasciatore (straordinario) americano a Tripoli, potrebbe non essere un segnale di vicinanza all’Italia quanto piuttosto un avvertimento al Cremlino.

Cosa rischia l’Italia sul fronte dei flussi migratori e sul fronte degli interessi economici?

L’Eni ricava dalla Tripolitania più del 70% del petrolio che estrae in Libia. Abbiamo siglato accordi con le autorità di Tripoli e con la guardia costiera per le politiche di contenimento dei flussi migratori. Il caos nell’ovest, come già accaduto a settembre, non gioverà certo all’Italia. Con le milizie impegnate in un conflitto non è da escludere un minor controllo sui flussi, anche da parte della guardia costiera che deve operare in un teatro molto destabilizzato. Sabato l’Eni ha evacuato il suo personale, in via precauzionale. Lo aveva già fatto in altre occasioni ma poi i lavori sono sempre ripresi, grazie al capitale di fiducia storicamente sviluppato dall’azienda con gli attori locali libici e alla sua capacità d “muoversi” nei mutevoli e complessi equilibri del paese. Credo, per questo, che gli interessi dell’Eni al momento non sono a rischio.

Se ambigua è stata la posizione italiana, non da meno la Francia ha avuto un ruolo chiaro in ambito Nato (e anche Ue o Onu) schierandosi con la Russia per sostenere Haftar. Come si ricompongono queste fratture? 

Le fratture tra Italia e Francia nella questione libica, come ci dimostra la storia degli ultimi sette anni (per lo meno), sono difficilmente “ricucibili”. Gli interessi politici, economici e geostrategici sono stati e paiono ancora essere estremamente divergenti. Dalla missione in Niger, alla questione migranti, la realpolitik francese ha sempre prevalso sulla spiritò di alleanza con l’Italia. Forse dovremmo guardare oltre la politica. Eni e Total, hanno definito accordi esplorativi in Algeria e Libano e presto, probabilmente, faranno altrettanto in Egitto. Anche sul fronte libico una maggiore collaborazione tra i due colossi energetici potrebbe portare vantaggi reciproci.

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