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Notre Dame non è morta. Vive come simbolo di un’Europa smarrita che fatica a ritrovarsi

notre dame

No, non sarà una ferita che resterà aperta per sempre. Notre-Dame sarà ricostruita. Il danno materiale è tutt’altro che irreparabile. Eppure il dolore che l’incendio della cattedrale ha suscitato non si placa davanti alla ragionevole certezza che i segni della devastazione verranno cancellati. La minimizzazione di molti autorevoli critici e di sprovveduti tuttologi che impropriamente hanno derubricato l’incidente parigino a “poca cosa”, paragonandolo a catastrofi umanitarie divenute endemiche o a sconvolgimenti naturali e sociali in vaste aree del Pianeta, non ci affligge, ci muove a pietà. È come se nel 1966 non avrebbe dovuto toccarci l’esito terribile dell’alluvione di Firenze perché in fondo erano soltanto antichi libri, pergamene e polverosi documenti ad andare in malora. E pietosamente, appunto, raccogliamo se non l’indifferenza quanto meno l’incomprensione di chi ha risolto (si fa per dire) la “pratica” asserendo che in fondo nulla di importante, significativo, prezioso è andato perduto.

Sarà così, ma il punto non è questo. Notre-Dame non custodisce capolavori degni della Sistina o di San Pietro o degli Uffizi, ma è il simbolo di un’identità ora sfregiata. Dal Destino, naturalmente. Per fortuna la mano dell’uomo in quest’occasione non ha avuto parte. Il dolo è escluso, il terrorismo non c’entra, la disattenzione neppure (almeno sembra). La fatalità ha squarciato il cuore della cattedrale, di Parigi, della Francia, di coloro che a quello splendido monumento gotico, sorto sulle rovine di un tempio pagano dedicato da Giove da Giulio Cesare, ancor più per questo evento resteranno affezionati. Non soltanto per l’irripetibile bellezza più volte ritoccata nel corso dei secoli, quanto per la rappresentazione – una delle più riuscite – dello spirito europeo, della cultura di un mondo che sapeva, più di mille anni fa, immaginare una chiesa cristiana tra le cui mura austere celebrare riti che conciliassero la finitezza individuale con l’infinito sovrumano.

Notre-Dame è per ognuno tante cose. Ma per tutti una sola cosa: una straordinaria preghiera in pietra, in legno e in piombo elevata a Dio e da generazioni “frequentata” da chi riconosce nell’opera umana il riflesso di quella divina. Lo si può dire, ovviamente, per tanti luoghi di culto, ma la perfezione stilistica, la concezione sacrale che ha presieduto alla costruzione della cattedrale parigina, le vicende storiche che, nel bene e nel male, l’hanno avuta a protagonista, non possono che indurre ad un incantamento che nei segni delle statue, delle vetrate, nella solennità della navata e del transetto, nella croce che campeggia sopra l’altare centrale e nella statua della Vergine propone il sentimento diffuso e perenne di una civiltà intimamente legata al sacro, per quanto la secolarizzazione dilagante eclissi questo dato storico e spirituale allo stesso tempo.

Certo che il tetto e la guglia di Notre-Dame verranno ricostruite; e saranno restaurate le parti già da tempo pericolanti; e non verranno trascurati gli abbellimenti programmati: non sarà la prima volta che si porrà rimedio alle devastazioni provocate dal tempo e e dall’imperizia umana. Anche dopo le nefaste e blasfeme incursioni rivoluzionarie, soprattutto nel decennio 1789-1799, quando Notre-Dame venne trasformata in Tempio della Ragione, la sensibilità di un popolo ebbe la meglio restituendola alla sua naturale funzione. E Napoleone vi si incoronò davanti a Papà Pio VII imperatore dei francesi, e prima vi aveva battezzato suo figlio, il re di Roma, e poi, dopo l’ispirato romanzo di Victor Hugo, Notre-Dame de Paris, del 1831, una vibrante eccitazione coinvolse gente comune e aristocratici, intellettuali ed ecclesiastici nella richiesta di riportare la “loro” cattedrale all’antico splendore.

La guglia, la “freccia”, come la chiamano i francesi, che si vedeva dal Marais e dal Quartiere Latino, dalla rive droite e dalla rive gauche, di Eugene Viollet-le- Duc, realizzata nel 1850, dopo un altro “incidente” che si abbatté sulla cattedrale, non sarà un capolavoro, come è stato detto, degno di Michelangelo o Brunelleschi, ma ci eravamo affezionati come ad un parente che si saluta al mattino levando lo sguardo e vedendola al suo posto.
Lì, nel cuore della Cité, provenendo dall’Ile de Saint-Louis, Notre-Dame è un incontro quasi quotidiano per chi vi soggiorna spesso e a lungo da tanto tempo. Forse più dei parigini stessi che ovviamente l’hanno considerata parte del loro mondo. Ma per chi vi si è accostato fin da ragazzo e poi nel corso del tempo vi si è ambientato e quando ha potuto si è raccolto in preghiera alla Messa delle 11 della domenica, cullato dalle musiche sacre prodotte dall’immenso organo – forse il più grande d’Europa -, il Tempio che nacque sotto gli occhi di Papa Alessandro III nel 1163, non è soltanto un luogo di pietà religiosa, ma un rifugio, per quanto imponente e sontuoso, dell’anima nel quale lo sguardo e la mente si smarriscono nel concerto di simboli che rimandano al profumo di una tradizione che ha fuso potere spirituale e potere temporale in una sorta di cattedrale dell’impero cristiano e cattolico, come lo immaginava Carlo Magno.

Non solo reliquie e manufatti preziosi e ancestrali simboli sono racchiusi tra le sue mura gotiche, ma vi stazionano memorie che si allungano fino ai ai nostri giorni, come nell’ultimo funerale di Stato che vi si è celebrato senza la salma, quello di François Mitterrand, e nel penultimo, quello di Charles De Gaulle, testimonianti un sentimento di unione tra lo Stato laico e l’anima religiosa della Francia.

Quella stessa anima che lo scrittore Dominique Venner intese scuotere, a suo modo, dandosi la morte sull’altare maggiore di Notre-Dame il 21 maggio 2013, lasciando scritte queste parole: “Io mi do la morte al fine di risvegliare le coscienze assopite. Mi ribello contro la fatalità del destino. Insorgo contro i veleni dell’anima e contro gli invasivi desideri individuali che stanno distruggendo i nostri ancoraggi identitari, prima su tutti la famiglia, intimo fondamento della nostra civiltà millenaria”.

E dove, si disse, se non là, a Notre-Dame, simbolo della civiltà europea, Venner poteva attuare il suo disegno, discutibile per alcuni, ma ispirato indiscutibilmente ad un profondo attaccamento alla tradizione? Vedremo ancora la cattedrale, non c’è dubbio. Risorgerà? Risorge ciò che muore. Notre-Dame non è morta il 15 aprile 2019, una data che comunque sarà ricordata a lungo, per il semplice motivo che i simboli, come i miti, non possono morire, tuttalpiù si nascondono per un tempo indefinito e poi riappaiono. Miracolosamente.

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