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Quando Pei mi disse che per un architetto è impossibile lavorare in Italia. Il ricordo di Vincenzo Scotti

louvre pei

Quando un ospite arrivava a New York per incontrare il piccolo grande architetto Ieoh Ming Pei, entrava in una piccolissima palazzina resa ancora più piccola perché ubicata tra due grattacieli. Si aveva così l’immagine dell’artista che dopo poco si sarebbe incontrato. Questa fu la mia impressione quando mi accinsi a entrare nella sua casa e con non poco timore. Lo avevo chiamato al telefono un lunedì pomeriggio della primavera del 1982 e – fin da subito – mi aveva messo a mio agio. Alla mia richiesta di un appuntamento mi aveva risposto che mi avrebbe ricevuto a casa sua a New York alle sei del pomeriggio del mercoledì della stessa settimana. Forse non aveva capito che lo chiamavo da Roma e non eravamo ancora nell’era dei telefoni cellulari. Era tanto forte il desiderio di poterlo incontrare che non feci nessuna obiezione alla sua proposta. Gli dissi solo che ero il ministro per i Beni Culturali e non ebbi il tempo di dirgli che lo chiamavo da Roma.

Dal primo momento in cui fui nominato ministro, con gli esperti del ministero cercai di approfondire l’idea di trasferire quello straordinario monumento che è l’Arsenale di Venezia dal Demanio Militare a quello civile dei Beni Culturali, di restaurarlo completamente e farne centro di grandi attività culturali. Ero stato nella città ed avevo visitato il restauro dei magazzini del sale. Ne avevo parlato con il senatore Spadolini, presidente di quel governo, e ne avevo assicurato sostegno e stimolo. Aveva ipotizzato di affidare ad una commissione di massimi esperti internazionali l’approfondimento di una prima idea progettuale con l’obiettivo di coinvolgere la grande comunità degli studiosi di Venezia. A presiedere la Commissione con alcuni autorevoli membri del Consiglio nazionale avevamo ipotizzato proprio l’architetto Pei.

Questo era sostanzialmente l’obiettivo del mio viaggio a New York: convincere il maestro ad accettare la proposta. Pei aveva realizzato la “piramide” al Museo Louvre di Parigi. Con Bona Pozzoli quel mercoledì trovammo l’architetto cinese che ci accolse con molta gentilezza e con grande attenzione, attento a quanto mi accingevo a chiedergli. Nonostante il fuso orario iniziai a raccontargli quello che era il mio sogno. Con grande pazienza l’architetto mi ascoltò per oltre un’ora senza mai interrompermi ma anzi prendendo accuratamente appunti. Alla fine con un grande sorriso cinese mi invitò ad andare a cena in un ristorante vicino alla sua abitazione perché voleva una pausa di riflessione e mi avrebbe dato una risposta. Una volta seduti al ristorante, dopo aver ordinato la nostra cena, ci raccontò dei suoi anni giovanili e della sua passione e felicità nel “creare” e “progettare”.

Alla metà della cena si interruppe nel racconto della sua vita e venne subito alla questione. Per lui, mi spiegò, il poter lasciare un suo segno nella città di Venezia rappresentava la massima aspirazione di architetto. Aveva ben presente l’Arsenale e Venezia. Ogni volta che lo citava un sorriso luminoso illuminava il suo volto. Ad un certo punto si interruppe e rivolgendosi direttamente ci disse: “Posso parlare con grande sincerità e dirvi quello che ho pensato su ciò che mi avete detto. Vi ripeto, lavorare a Venezia è il sogno di una vita per un architetto come me e quindi dovrei dire subito e con entusiasmo che accetto. So bene che lei, ministro, deve avere l’assenso dei suoi colleghi di governo e delle autorità locali, cose non semplici, e so bene che è necessario. Ma non è questo che mi porta a doverle dire di no ad una offerta tanto straordinaria. Le dico subito che la ragione vera sta in una mia convinzione: che per un architetto non è facile o semplice, per non dire semplicemente impossibile, lavorare in Italia – e aggiunse – nel vostro straordinario Paese un architetto deve fare soprattutto i conti con l’insieme dei vincoli e dei regolamenti piuttosto che con i limiti della propria creatività”.

Pei usò anche altre espressioni ma la ragione del suo diniego, dopo tutto, restò quella che ho ricordato. Pei fu estremamente gentile e condì il suo no con tante delicate espressioni di ammirazione soprattutto verso i nostri architetti del tempo presente. Alla fine, la cena si concluse con il mio inutile tentativo a rifletterci ma per quanto fosse apparentemente fragile e il suo sguardo indecifrabile, mi resi conto che – suo malgrado – non avrebbe accettato la proposta. Con questo incontro – assolutamente straordinario – con Pei si chiuse anche il mio sogno perché dopo pochi mesi lasciai il ministero per i Beni Culturali e tornai alla durezza delle trattative sindacali sulla scala mobile.



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