Al Wall Street Journal
Con un op-ed sul Wall Street Journal, giornale amico della Casa Bianca, il capo del governo promosso dall’Onu in Libia, Fayez Serraj, ha chiesto al presidente statunitense Donald Trump di fermare l’offensiva lanciata dal signore della guerra della Cirenaica, Khalifa Haftar, contro Tripoli.
Centinaia di libici “sono già stati uccisi”, dice Serraj (che ricorda come il suo ruolo di guida del Governo di accordo nazionale, Gna, sia frutto di una “partnership “con le Nazioni Unite), e migliaia sono gli “sfollati”. Il rischio è che la guerra civile si trasformi in un rubinetto per “flussi [di immigrati] verso l’Europa”.
Il libico chiede all’americano impegno per fermare l’aggressione di Haftar perché, dice, la situazione si sta trasformando in un “campo di battaglia per un conflitto proxy”, ossia una guerra per procura. Il richiamo è incisivo. Lo scontro in Libia rischia effettivamente di diventare uno sfogo militare del confronto tra stati sunniti, con relativa interpretazione dell’Islam, proiezioni e interessi regionali. “Il Gna – scrive Serraj – sta combattendo un aspirante dittatore militare […] che sta prendendo soldi e armi da parte di attori stranieri che perseguono uno stretto interesse personale a spese della Libia”.
IL QUADRO GEOPOLITICO
Un passaggio che richiede un inquadramento per essere compreso. Da una parte c’è Haftar che ottiene il consenso esplicito di Egitto ed Emirati Arabi, cui da un paio di mesi s’è unita l’Arabia Saudita, in un allineamento che finora non aveva visto Riad partecipare attivamente sul fronte libico, ma che si riconduce alla visione universalistica dell’Islam, basata sulla lotta delle posizioni islamiste già costruita su altri dossier, sintetizzata in una posizione ultra-aggressiva contro realtà come la Fratellanza musulmana (organizzazione islamista panaraba che questi tre paesi considerano un gruppo terroristico).
Dall’altra c’è Serraj che gode della legittimazione della Comunità internazionale, ma ha collegamenti più diretti – e più operativi sul piano logistico-militare – con Qatar e Turchia, i principali due paesi dove la Fratellanza e le sue visioni politico-sociali islamiste sono diffuse. Soprattutto, collegati ai Fratelli sono diverse delle milizie che difendono Serraj dall’attacco a Tripoli e che finora hanno (seppur con vicende interne burrascose) garantito la sicurezza del premer onusiano.
Per chiudere il quadro: il Qatar è stato posto in isolamento diplomatico dai paesi del Golfo e dall’Egitto; la Turchia vuole da sempre rubare a Riad il ruolo di guida del mondo sunnita; l’Egitto è in competizione con i turchi anche per pratiche legate ai giganteschi reservoir (e tutta la geopolitica collegate) del Mediterraneo orientale.
Il ruolo, e soprattutto il peso, di Trump non è secondario su questa scenografia che arriva in Libia e parte dal Medio Oriente. Basterebbe una dichiarazione per spezzare la catena di sostegno dietro ad Haftar.
Washington però ha più volte – anche in passato – dimostrato di aver un interesse sfumato sulle vicende interna alla Libia considerata più che altro un territorio di caccia per i gruppi jihadisti che la vivono e che ne sfruttano il contesto caotico creato dall’instabilità post regime dal 2011 (e mai riequilibrato). Gli Usa inquadrano il paese all’interno del macrotema geopolitico che la dottrina strategica statunitense definisce area MENA, però hanno dimostrato anche recentemente di avere un rinnovato interesse sul Mediterraneo, e la Libia è uno dei dossier caldi del bacino; uno di quelli che rende burrascoso il Mare Nostrum.
I PASSAGGI CHE HANNO IMPENSIERITO SERRAJ
Nei giorni scorsi ci sono stati almeno due passaggi che hanno impensierito, e non poco, Serraj che ha dimostrato queste preoccupazioni in un tour europeo in cui ha sostanzialmente chiesto a Italia, Francia, Germania e Regno Unito di impegnarsi di più al suo fianco come unico legittimo all’interno del marasma libico. Prima, a fine aprile, la Casa Bianca ha diffuso informazioni su una telefonata di Trump a Haftar, in cui il readout (preparato forse senza troppa attenzione) sembrava mostrare un’inclinazione americana verso l’autoproclamato Feldmaresciallo cirenaico, legittimandogli un ruolo nella lotta al terrorismo.
Un passaggio delicato, perché secondo l’interpretazione di Haftar i terroristi sono tutte le altre milizie escluso la sua, e questo sottintende – senza troppe velature – che anche il governo Onu di Serraj è appoggiato da terroristi. Questo genere di narrazione (cui Washington ha dato sponda) è stata costruita ad Abu Dhabi e al Cairo per cercare di inquadrare il loro uomo come un salvatore della patria dall’ombra del terrorismo. In realtà, come ricorda anche Serraj sul WSJ, le principali battaglie contro lo Stato islamico e alcuni gruppi affiliati sono state condotte dagli uomini delle milizie di Misurata, alcune molto vicine alla Fratellanza, che hanno disarticolato l’Is a Sirte e in diverse zone dell’Ovest – Haftar s’è occupato di liberare invece Bengasi dove però il Califfato era presente in forma più contenuta.
LA FRATELLANZA MUSULMANA
Dopo una faticosa normalizzazione della telefonata ad Haftar da parte di Pentagono, Consiglio di Sicurezza nazionale e dipartimento di Stato, da Washington sono però emerse anche delle indiscrezioni – piuttosto concrete e mai smentite – sull’intenzione di inserire rapidamente la Fratellanza nella lista dei gruppi considerati terroristici dagli Usa. Si sa che l’amministrazione Trump lo sta pensando da parecchio (dai tempi in cui le politiche anti-terrorismo dello Studio Ovale trumpiano erano influenzate dal falco Sebastian Gorka), e si sa che ha interesse nel farlo anche per allinearsi agli amici/alleati del Golfo, ma se la designazione dovesse arrivare in questo momento sarebbe devastante per la stabilità libica.
Come detto, diversi dei politici e dei gruppi che sostengono Serraj sono collegati all’interpretazione islamica della Fratellanza, e a quel punto Washington come potrebbe continuare il supporto politico formale offerto a Serraj nell’ambito del programma Onu senza violare le sue stesse leggi sul terrorismo? “Per prevenire una sanguinosa guerra civile con implicazioni globali, la Libia ha bisogno che gli Stati Uniti contribuiscano a impedire ad altri paesi di ingerirsi nei nostri affari”, scrive Serraj, per cercare di sganciare Trump dalle influenze altrui.
L’uomo dell’Onu in Libia chiede agli Usa di fare “riuscire laddove i precedenti presidente hanno fallito” (è una chiave retorica utile, perché Trump è costantemente in cerca di competizioni e affrancamenti dalla politiche dell’amministrazione precedente). Un pressing che arriva il giorno seguente di un’altra azione di spin giocata contro l’Unione europea: ieri, infatti, il Gna ha fatto sapere di aver intenzione di sospendere dall’operatività commerciale in Libia quaranta aziende Ue, tra cui la Total francese. Una mossa – poi edulcorata tramite un meccanismo di esenzione temporanea promosso in persona da Serraj – che sembrava sfruttare un contesto di fatto, la scadenza dei permessi libici per quelle aziende, come obiettivo per pressare Bruxelles a prendere una posizione più pesante, condannare Haftar e aiutare il governo delle Nazioni Unite.
Il dossier libico si sta muovendo ora su un piano laterale e più politico rispetto al fronte dei combattimenti, spostato anche in sede Onu con denunce riguardo aiuti esterni – dannosi – a favore di Haftar e i potenziali crimini di guerra commessi. Sul campo invece il Feldmaresciallo dimostra un’inconsistenza militare che già ai tempi in cui era un generale di Gheddafi gli era costata il posto (dopo la sconfitta in Ciad). La presa di Tripoli doveva essere una cavalcata vittoriosa, ma anche oggi arrivano notizie dalla Libia riguardo il lento, costante indietreggiare degli haftariani, che in parte stanno lasciando la Tripolitania per rientrare in Cirenaica, visto che – come ci dice una fonte libica – “una nuova guerra in Libia non la vuole nessuno”.