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Conte scrive a Bruxelles, ma non centra il cuore dei problemi

Ed ora si tratta solo di “vedere di nascosto l’effetto che fa”, come cantava Enzo Jannacci, in una sua fortunata canzone. Sperando solo che il contesto sia meno funereo. Qualora non fosse, la crisi, indotta dall’avvio di una procedura d’infrazione, non avrebbe conseguenze negative solo per l’Italia del governo Conte, ma per l’intera Eurozona. Del resto il contesto internazionale non è dei più favorevoli.

IL FATTORE TRUMP

Donald Trump si appresta ad incontrare i dirigenti cinesi, per chiudere la partita sugli squilibri commerciali tra i due Paesi. Attacca, in modo strumentale, Mario Draghi, accusandolo di voler deprimere, con la sua politica monetaria, il corso dell’euro. Dimenticando i reali rapporti di cambio (1,13 dollari per un euro) che riflettono l’asimmetria negli andamenti delle rispettive bilance dei pagamenti: più 3,6 nell’Eurozona, contro – 2,4 per cento negli Usa. Squilibrio che comporta, semmai, un’ingiustificata svalutazione del dollaro. Sobria la risposta del Numero uno della Bce: meglio non raccogliere le provocazioni. Tanto più se strumentali. Visto che Trump sembrava, piuttosto, voler tirare le orecchie a Jerome Powell – il Presidente della Fed – per costringerlo ad abbassare i tassi d’interesse al di là dell’Atlantico.

L’EUROPA PICCOLA PICCOLA

In questo mare magnum, scosso dalle onde, l’Europa continua a cincischiarsi con regole e regolette. Guarda poco ai fondamentali. Ignora ciò che sta nascendo sotto la pelle del quarto o quinto capitalismo (non sapremo dire): quel grande sforzo nello sviluppare tecnologie di nuova generazione, in grado di cambiare il volto dell’intero Pianeta. E su questa base creare nuove gerarchie di potere. In cui l’Europa rischia di rimanere quel vaso di coccio stretta nella morsa di un confronto che avrà solo due protagonisti: non più Occidente vs Oriente. Ma stati Uniti e Cina. Con la Russia di Putin speranzosa di partecipare alle spoglie del Vecchio continente. Il grande sogno degli zar prima e del “socialismo realizzato” poi.

LA LETTERA DI CONTE? SI POTEVA FARE DI MEGLIO

Accenni di questo tipo sono contenuti nella lettera del presidente del consiglio, Giuseppe Conte (destinatari Commissione e Consiglio europeo), ma appena sfiorati. A differenza di quanto sostiene la Repubblica, tuttavia, più che una lettera “vuota” essa appare, per molti versi generica e contraddittoria. C’è un passo che è rilevatore. Conte si lamenta con il resto dei partner comunitari “se le politiche macroeconomiche di alcuni grandi partner sono prevalentemente dirette a conseguire surplus di parte corrente e di bilancio, piuttosto che attivare politiche d’investimento, di innovazione, di protezione sociale e di tutela ambientale”. Il riferimento alla Germania è del tutto evidente. Dimentica, tuttavia, che anche l’Italia, con il suo avanzo di parte corrente della bilancia dei pagamenti, fa parte del club. Non ha, ovviamente, un surplus di bilancio. Ma lo squilibrio macroeconomico, secondo la definizione dei Trattati, è certificato. Con l’aggravante, rispetto alla Germania, rappresentato da un tasso triplo dei livelli di disoccupazione. Su questo aspetto era forse necessario insistere maggiormente. Attaccando il cuore stesso del Fiscal compact e le sue interne contraddizioni. Ricordando quanto già avvenuto in sede europea. A partire dalla sonora bocciatura, da parte del Parlamento, della proposta di inserire stabilmente quelle regole nell’ordinamento giuridico. Chiedendo il rispetto dell’articolo 16 del Trattato istitutivo, che prevedeva una verifica dei risultati conseguiti, dopo i cinque anni di applicazione (abbondantemente scaduti), e al quale non è stato data la minima attuazione. Fatto grave se si considera l’intensa attività compiuta dagli Uffici della Commissione nell’elaborare dossier su mille aspetti minimali del vasto campo di azione della stessa Commissione. Si sarebbero così evitate le tardive ed inutili recriminazioni dello stesso Jean Claude Juncker sulle vicende greche. Caso, quest’ultimo, richiamato nella stessa lettera, ma solo per ricordare le sofferenze imposte ad un popolo, che non le meritava.

LA PETIZIONE DI CONTE

Ma questo è forse il cuore della stessa missiva. Una petizione a favore del popolo. Sentimento nobile ed appello giustificato. Anche se non sapremo dire se, nei rapporti tra Stati, sia questo l’argomento principe. In genere, la funzione della leadership consiste, da un lato, nel cogliere le contraddizioni della controparte – cosa di una certa efficacia nella lettera – ma, al tempo stesso, prospettare soluzioni di carattere generale in grado di adeguare la struttura delle regole alla necessità di una diversa governance. C’erano le condizioni? Nel documento dei cinque presidenti (Jean-Claude Juncker, in stretta collaborazione con Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz del luglio 2015 – Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa) era contenuta un’indicazione precisa: “la procedura per gli squilibri macroeconomici dovrebbe anche promuovere riforme adeguate nei paesi che accumulano in modo persistente consistenti avanzi delle partite correnti, se detti avanzi sono dovuti, ad esempio, all’insufficienza della domanda interna e/o ad un basso potenziale di crescita, in quanto anche ciò è importante per assicurare il riequilibrio efficace nell’ambito dell’Unione moneta”.

Si poteva pertanto argomentare che l’Italia è chiusa in una morsa. Da un lato regole contabili che, invece di ridurre, accentuano gli squilibri macroeconomici. Dall’altra la necessità di rompere quella gabbia con politiche di sviluppo capaci di aggredire gli squilibri finanziari, aumentando il tasso di crescita complessiva dell’economia. E quindi proporre un compromesso in positivo. L’impegno a non tentare di risolvere le contraddizioni sociali derivanti da una persistente politica deflazionistica, con misure straordinarie di finanza pubblica. Leggi soprattutto il salario di cittadinanza o quota cento per le pensioni, ma ponendo al centro il rigore di una politica di sviluppo, il cui cardine non può essere solo la ripresa degli investimenti pubblici, con i loro tempi biblici di realizzazione. Cosa alla quale rimediare, ma gli ostacoli sono quelli che sono. Bensì con una complessa riforma fiscale, che ponesse al centro del suo intervento il dinamismo del mercato. Elemento indispensabile per utilizzare, all’interno, quell’eccesso di risparmio (oltre 35 miliardi l’anno nella media dal 2012 ad oggi) che non si riesce ad investire. Ponendolo a disposizione dell’estero. Come più volte dimostrato da Paolo Savona. Questa forse è la maggiore debolezza della lettera. Tante suggestioni, anche condivisibili. Ma poi, al momento della stretta, l’indicazione di una mini manovra, che si spera indolore, almeno per il 2019. Ma che lascia del tutto insolute le grandi questioni, a partire dall’Iva, per il prossimo anno.


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