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Domande senza risposta e contraddizioni di Mr. Huawei

Messa alle corde dalla campagna americana e indebolita dai dubbi circa la sicurezza dei suoi apparati, Huawei – discussa punta di diamante e simbolo della corsa hi-tech di Pechino – prosegue la sua offensiva mediatica. Per farlo sceglie di far scendere in campo il suo uomo più influente, il fondatore della compagnia, Ren Zhengfei, solitamente poco presente sulla stampa, ma che oggi spopola sui media della Penisola con interviste concesse a grandi quotidiani italiani, Corriere della SeraRepubblicaSole 24 Ore e Stampa e alla Rai.

LA DIFESA DI REN

Dal campus di Shenzhen, quartier generale della multinazionale fondata nel 1987 dall’ex ufficiale dell’Esercito popolare di liberazione cinese, il 74enne Ren difende a tutto campo il governo di Pechino e la sua azienda, che oggi conta 180mila dipendenti nel mondo e che nel 2018 ha registrato un fatturato di 105,2 miliardi dollari con un utile netto di 8,7 miliardi.

IL TEMA BACKDOOR

Uno dei temi più scottanti affrontato con i media della Penisola è stato quello delle possibili “backdoor” (porte di servizio che permettono di intervenire segretamente sul software, rilevate in passato – secondo una recente inchiesta di Bloomberg – nel Regno Unito, in Italia e non solo) inserite nei prodotti Huawei, al centro della scelta americana di escludere la compagnia cinese da ogni tipo di collaborazione con entità governative e dall’inserimento della stessa in una lista nera del Dipartimento del Commercio Usa di aziende considerate un rischio per la sicurezza nazionale americana. Una decisione che di fatto, salvo specifiche esenzioni da valutare caso per caso, vieta alle imprese americane di rifornire Huawei di componentistica di cui ha bisogno (e di cui dice di poter fare a meno in alcuni mesi). Su questo argomento Ren ha detto che il governo di Pechino non chiederebbe mai di farlo e che, se mai ciò avvenisse, egli si opporrebbe. Non viene toccato, però, uno dei nodi principali che preoccupano Washington e gli altri Paesi occidentali. La legge nazionale sull’intelligence del 2017 obbliga di fatto le imprese della Repubblica Popolare a collaborare con la madrepatria. Huawei ha recentemente sostenuto che ciò si applicherebbe solo entro i confini nazionali, ma sono molti gli osservatori che, allo stato attuale, non ravvisano alcuna specificazione di questo genere nella normativa di Pechino. Mentre invece sono emersi diversi casi di collaborazione con l’Esercito e i servizi segreti cinesi, finora sempre negati.

LA STRUTTURA SOCIETARIA

Stessi dubbi avvolgono da tempo la struttura societaria della telco cinese, ufficialmente basata su un modello cooperativo nel quale gli azionisti sono per la maggior parte i dipendenti. Ren esclude la quotazione alla Borsa di Hong Kong e aggiunge che i bilanci della compagnia “sono revisionati dall’americana Kpmg” e che l’azienda avrebbe “una maggiore trasparenza rispetto ad aziende quotate”, oltre ad aver già stabilito “piani per la successione e la governance”. Ricerche come quella realizzata da Donald Clarke della George Washington University e Christopher Balding della Fulbright University Vietnam sembrerebbero però dimostrare il contrario. Lo studio, dal titolo eloquente ‘Who Owns Huawei?’ (Chi possiede Huawei?), evidenzia che la società sarebbe detenuta completamente da una holding, della quale il 99% sarebbe posseduto da un “comitato sindacale”. Quest’ultimo, ipotizzano in sintesi i due studiosi, se gestito come altre organizzazioni simili in Cina potrebbe significare che l’azienda sarebbe in pratica posseduta e dunque controllata dal governo.

 IL FRONTE 5G

Un ultimo punto importante riguarda il 5G, le reti mobili ultraveloci di quinta generazione la cui sicurezza viene ritenuta indispensabile per assicurare, in un mondo di oggetti connessi, la continuità di servizi essenziali come mobilità, digital health, energia e finanza per citarne alcuni. Washington ha avviato da tempo una campagna di sensibilizzazione volta a convincere partner e alleati che una penetrazione cinese nelle nuove reti potrebbe esporre non solo i Paesi direttamente coinvolti ma tutto il network ad alti rischi, visto l’importante scambio informativo, anche sensibile, che c’è tra Usa e Five Eyes e Paesi Nato ad esempio.

Ren è categorico nel definire Huawei l’unica scelta per chi voglia utilizzare in tempi brevi il cosiddetto 5G stand alone, ovvero quello che non si appoggia, come accade in questa fase di transizione, all’esistente 4G. Evidenzia come la reazione americana sia, a suo dire, dettata dalla perdita del controllo tecnologico che Washington aveva sulle reti precedenti. E che ha senso distinguere tra “core” e parti periferiche della rete 5G, come aveva ipotizzato di fare il Regno Unito, “visto che i pacchetti di dati non vengono aperti finché non arrivano al nucleo”. Ma, anche su questo aspetto, sono molti gli esperti a smentire il fondatore di Huawei, spiegando che invece “quando si parla di reti è difficile distinguere tra elementi centrali o secondari, tra parti ‘core’ o ‘edge’. Un singolo punto di debolezza pregiudica infatti la sicurezza dell’intera rete e ciò è ancora più vero se si parla di 5G, tecnologia caratterizzata da grande velocità di risposta – la cosiddetta bassa latenza – che richiede tecnicamente una attività di elaborazione dati che avviene più ai margini dell’infrastruttura che non al centro”. E che dunque, per chi volesse “intercettare” questo traffico e ne avesse la possibilità, le occasioni non mancherebbero.

Dopo aver “sedotto” l’Europa, Ren si lancia infine in una nuova critica dell’azienda (già esplicitata dai suoi rappresentanti italiani in una recente audizione alla Camera) sul golden power allargato dalla Penisola a marzo scorso anche al 5G (con un secondo decreto legge, che modifica i tempi di istruttoria, ancora non convertito e dal destino incerto). “L’applicazione del golden power renderebbe fare business in Italia più complicato”, ma “abbiamo piena fiducia che il governo italiano non utilizzerà il suo potere di veto contro Huawei”. Parole che, unite all’annuncio di nuovi ingenti investimenti in Italia – criticati in alcuni loro aspetti proprio dai parlamentari della Commissione Trasporti di Montecitorio), sono parse ad alcuni osservatori come un invito a “fare la scelta giusta“.

Un golden power rafforzato, invece, viene ritenuto al momento fondamentale dagli addetti ai lavori proprio per rendere più efficace un sistema di controlli mirato non a colpire in maniera pregiudiziale il colosso di Shenzhen, ma a dare all’Italia strumenti corretti per affrontare in sicurezza la rivoluzione tecnologica in atto.


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