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Perché le imprese Usa sono preoccupate per il decreto golden power. Parla Crolla (AmCham)

L’esecutivo italiano “deve avere degli strumenti a disposizione che permettano di intervenire per la tutela delle infrastrutture strategiche e degli interessi nazionali”. Per questo “sarebbe un segnale politico preoccupante la decisione di far decadere il decreto-legge” che procede “ad un rafforzamento delle prerogative dello Stato” per le nuove reti 5G “senza aver trovato adeguate alternative”.
A crederlo è Simone Crolla, managing director dell’American Chamber of Commerce (AmCham) in Italia, che in una conversazione con Formiche.net sottolinea che “con la crescente pervasività del digitale, l’aumento dei rischi legati alla cyber security, la necessità di tutelare le reti e le infrastrutture strategiche è ormai indifferibile” e che “il tema della sicurezza nazionale è una delle priorità che dovrebbe avere l’agenda di governo”.

Sul tema del 5G gli Stati Uniti evidenziano da tempo alcuni timori che riguardano il ruolo dei colossi cinesi. Perché?

Il 5G è un’infrastruttura strategica fondamentale per sfruttare le potenzialità tecnologiche che si stanno sviluppando. Dall’Internet of Things fino alle comunicazioni più sensibili, tutto sarà progettato attorno al 5G.
Nello sviluppo di questa tecnologia è noto che alcune imprese cinesi hanno assunto una posizione di leadership, costruendo sistemi perfettamente integrati.

Questo che cosa comporta?

Quello che realmente conta è la possibilità per il governo italiano di avere degli strumenti a disposizione che permettano di intervenire per la tutela delle infrastrutture strategiche e degli interessi nazionali.
Credo che su questo punto i consigli che provengono dagli Stati Uniti siano da accogliere favorevolmente, soprattutto vista l’esistenza di regolamenti ad hoc in materia all’interno dell’Unione europea e degli Stati Uniti stessi.
Nel mese di maggio un’azienda come Huawei è stata inserita dagli Usa nella “entity list”, che proibisce alle aziende Usa di effettuare transazioni con questa società, in risposta alle preoccupazioni riguardanti la sicurezza nazionale.

Il governo ha approvato nei mesi scorsi un decreto-legge, poi convertito, che estende i poteri speciali dell’esecutivo anche al tema delle nuove reti. Lo considera sufficiente per dare rassicurazioni a Washington?

Il decreto-legge in questione aumenta formalmente l’incidenza che il governo può avere nell’avere l’ultima parola, ponendo veti o prescrizione se lo ritiene necessario, su contratti o accordi per tutti gli affari che riguardano il 5G quando questi sono stipulati tra operatori esterni all’Unione europea.
Queste scelte non potranno non tenere in debita considerazione il quadro di alleanze a cui ha sempre fatto riferimento il nostro Paese.
In definitiva, la vera questione riguarda il posizionamento geopolitico e internazionale dell’Italia, dal mio punto di vista non ci sono dubbi: sempre al fianco degli Stati Uniti d’America, per noi da sempre l’alleato più importante e, a maggior ragione oggi, cruciale per il nostro interesse nazionale.

Sempre sul tema dei poteri speciali, al momento, invece, l’esecutivo appare diviso sull’approvazione di un ulteriore decreto-legge che integra il primo, intervenendo su alcuni aspetti tecnici del Golden Power per il 5G ma non solo – misure di controllo, potere di veto, obblighi di notifica e istruttoria. Questo provvedimento non è ancora divenuto legge e la sua mancata conversione, che ora sembra quasi certa, rischia di creare un vuoto normativo, evidenziato su questa testata anche da giuristi. Che rischi ci sono dal punto di vista della sicurezza?

Certamente il tema della sicurezza nazionale è una delle priorità che dovrebbe avere l’agenda di governo. Con la crescente pervasività del digitale, l’aumento dei rischi legati alla cyber security, la necessità di tutelare le reti e le infrastrutture strategiche è ormai indifferibile. Sarebbe un segnale politico preoccupante la decisione di far decadere questo decreto-legge senza aver trovato adeguate alternative, decidendo di non voler procedere ad un rafforzamento delle prerogative dello Stato e, di fatto, rinunciando ad estendere da 15 a 45 giorni il periodo durante il quale il governo può esercitare un eventuale veto o l’imposizione di specifiche prescrizioni o condizioni.

Perché si tratterebbe di un segnale preoccupante?

In un momento storico in cui gli Stati stanno aumentando i propri strumenti di difesa – su questo gli Usa sono all’avanguardia grazie al Cfius e all’approvazione nel 2018 del Firrma (Foreign Investment Risk Review Modernization Act), l’Unione europea ha istituito il 5 marzo 2019 un regolamento per il vaglio degli investimenti esteri – l’Italia prenderebbe un percorso in controtendenza, privandosi di importanti opportunità d’intervento per tutelarsi e difendere il suo quadro di alleanze internazionali.

A proposito di alleanza internazionali, secondo diversi osservatori il tema 5G si unisce a un approccio soft dell’Italia nei confronti dell’espansionismo della Cina, nel quale si può annoverare anche il Memorandum sulla nuova Via della seta firmato dalla Penisola, unica tra i Paesi G7. Che rischi a suo parere pone uno shift così importante rispetto alla nostra tradizionale bussola di politica estera, finora maggiormente filoatlantica?

I rischi derivanti da un così radicale e profondo cambio di approccio esistono e, forse, non sono stati attentamente valutati da coloro che hanno così fortemente spinto a firmare questo accordo con la Cina. Paesi come Francia e Germania, che non hanno voluto firmare alcun impegno in tal senso, continuano ad avere un importante interscambio commerciale con Pechino senza però aver formalmente aderito ad un progetto inserito recentemente all’interno della Costituzione cinese, segno di quanto questa strategia sia chiave per il futuro cinese.

Che approccio dovrebbe avere il governo su questi argomenti?

Penso che oggi si debba ritornare ai fondamentali storici della nostra politica internazionale, ossia ad un rafforzamento dell’asse transatlantico, elemento che sta conoscendo una fase di indebolimento, anche per un’Europa non così motivata a costruire un accordo vasto e innovativo con gli Stati Uniti, che permetta di migliorare i flussi all’interno di un’area che rappresenta oltre il 45% del Pil globale. Il fallimento del negoziato sul Ttip e la ritrosia con cui si stanno affrontando le discussioni per riaprire un dialogo con gli Usa su temi commerciali e d’investimento sono chiari esempi di questa bassa propensione a scommettere sulla relazione transatlantica.
Invece, si affrontano con più leggerezza dossier come quello cinese, che dovrebbero essere trattati con maggior delicatezza e attenzione, soprattutto in un momento di grande tensione commerciale a livello mondiale.
Infine, non si dimentichi che la Commissione europea ha definito la Cina all’interno di un suo documento pubblicato lo scorso 12 marzo 2019 come “an economic competitor in the pursuit of technological leadership, and a systemic rival promoting alternative models of governance”. Una valutazione che il governo italiano dovrebbe sempre tenere bene a mente.


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