Non solo si sminuzza, pezzo per pezzo, il disegno atlantico euroitaliano ma con questa direttrice di marcia in politica estera l’Italia rischia una prospettiva mortale per i propri interessi nazionali.
È la riflessione che il prof. Alessandro Politi, Direttore della Nato Defense College Foundation, affida a Formiche.net nell’ambito di un più ampio ragionamento geopolitico che, partendo dai trattati di non proliferazione russo-americani, tocca il nervo scoperto del nuovo ruolo europeo. Sullo sfondo da un lato il pericolo di un ritorno alla guerra fredda, dall’altro di una progressiva e deleteria marginalizzazione di Roma.
Secondo Putin il ritiro degli Stati Uniti dal trattato sui missili a raggio corto e intermedio “rappresenta la distruzione di uno dei documenti principali nel campo del controllo degli armamenti”. Ha ragione?
Sì, nel senso che se in presenza di una spirale negativa, e per ora niente ci lascia presagire il contrario, pezzo pezzo si smantellerebbe tutto il sistema dei trattati non proliferazione nucleare.
Vede all’orizzonte la ripresa di una corsa agli armamenti?
La Presidenza Usa dice che c’è un dialogo strategico con la Russia, quindi su un orizzonte del 2025, aggiungendo che vi è la speranza di firmare un nuovo trattato start. Finché sono auspici siamo soddisfatti, ma come tutti sanno i trattati sul nucleare sono lunghi ed estremamente complessi da negoziare. Se queste due iniziative non saranno portate avanti in maniera rigorosa e professionale da entrambe le parti rischieremo una corsa agli armamenti sulla testa degli europei. E per ora le ultime notizie ci dicono che è partito l’ordine di sviluppare un nuovo missile da crociera americano. Ciò, tenendo ben presente che il Novator schierato dai russi non è mai stato sottoposto ad un controllo stringente né sono state risolte le questioni sollevate dai russi sul defunto trattato Inf.
Per cui cosa spetta agli attori in campo?
Vedo due parti che hanno responsabilità e due parti che devono iniziare ad uscire da questo angolo, oltre ad un’Europa che dovrebbe cominciare ad assumere una leadership molto più attiva nei trattati di non proliferazione, visto che un interesse strategico dell’Europa è non avere nuovamente missili. Ritornare alla situazione degli anni ’80 non sarebbe una prospettiva favorevole. Parole inquietanti quelle sentire dire a Washington che, impiegare l’arma atomica per difendere Riga, non è probabile. Parliamo della indivisibilità della sicurezza atlantica.
In questo contesto, e alla luce dell’appello lanciato al governo da Formiche, il ruolo dell’Italia può essere sminuito su scala internazionale dai troppi silenzi su dossier come Libia, Iran e Cina?
Sì. L’Italia ha tutta la potenzialità per avere un ruolo all’altezza non solo delle sue capacità ma anche delle aspettative che hanno gli alleati. Noi non abbiamo bisogno di essere “il bravo bulgaro” dell’alleanza durante la guerra fredda, l’atlantismo non è una faccenda da Patto di Varsavia. Però da troppo tempo i nostri maggiori alleati ci relegano tra le varie ed eventuali. Una condizione non solo pericolosa, ma proprio mortale per i nostri interessi nazionali.
Secondo l’ex ministro degli esteri Frattini “chi si impegna di meno conterà di meno”. Ha ragione?
Penso di sì, anche perché sulla Libia c’è un interesse nazionale diretto a sostenere, non solo a parole, il governo Serraj. Già stiamo subendo gli effetti di tale inerzia: si ripercuotono anche sul bilancio nazionale visto che la bolletta energetica è nostra. Sull’Iran altrettanto: se bisogna avere una linea europea, essa va elaborata anche tenendo conto della risposta tedesca molto netta contro una partecipazione della propria marina ai pattugliamenti nel Golfo Persico. Le scelte vanno meditate, costruite e poi applicate senza troppi proclami mediatici.
Guardando all’atlantismo di domani a cosa può condurre nel medio-breve periodo il disimpegno italiano su fronti strategici?
Ad una gestione del rapporto con la Russia che ignora gli interessi italiani, sposando quelli di attori attivi come Germania, Francia, Gb, Stati Uniti, Polonia. Porta inoltre ad una non gestione dei problemi della ripartizione degli oneri e dei compiti fra alleati, che va oltre il dibattito formale sul 2%. Questo dato parla di risorse da impiegare e non di capacità prodotte da utilizzare. Una presenza più attiva dell’Italia, ad esempio, dovrebbe portare a riformulare un criterio vecchio e inutile oltre che dannoso come dimostra il Regno Unito. Infine il problema delle gestioni della crisi che richiedono di fronteggiarne sei piccole e due grandi con unità alleate interforze alleate.
Quale ruolo per gli europei dunque?
In occasione del seminario che la Fondazione ha realizzato con l’Atlantic Council, è stato osservato che gli Usa potrebbero essere impegnati presto nel Pacifico e se ci dovesse essere un fronte di crisi nel Caucaso, in Africa o in Medio Oriente cosa faranno gli europei? Tutte questioni estremamente concrete che richiedono risposte concrete e non ideologiche. Un governo che non è capace di elaborare questo schema, sarà poi trascinato a forza in crisi che non vuole.
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