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Consigli non richiesti di Novelli a Conte: la mitezza non basta

Il richiamo alla mitezza fatto da Giuseppe Conte nel corso degli ultimi discorsi pubblici è un punto di inizio, ma non è sufficiente. Perché si torni ad un linguaggio della politica meno gridato e più rispettoso sono necessari altri requisiti fondamentali, senza i quali non può essere possibile un cambio di paradigma comunicativo. A crederlo è Edoardo Novelli, sociologo, professore esperto di Processi culturali e comunicativi nonché autore televisivo e giornalista che in una conversazione con Formiche.net ha approfondito il tema del linguaggio della politica e delle istituzioni, arrivando a proporre un sistema di autoregolamentazione nell’uso dei social network che limiti l’istigazione all’odio.

Professore, il presidente Conte ha fatto diversi appelli alla mitezza del linguaggio, chiedendo anche ai propri ministri di tenere un profilo basso, non gridato. Serve per marcare la discontinuità col passato governo o c’è qualcos’altro?

Sicuramente una delle ragioni è il tentativo di mancare una netta discontinuità con l’esecutivo precedente, che si è inserito in un clima di sempre maggiore degradazione della qualità del discorso pubblico e della comunicazione politica. Un cambiamento in questo senso può marcare un distacco immediatamente percepito e percepibile, diversamente dalle politiche economiche, ad esempio, che richiedono molto più tempo per essere percepite dai cittadini. Ma direi, per il resto, che la sola mitezza non è sufficiente per migliorare il discorso pubblico. Vi sono altri requisiti da tenere in considerazione.

Quali sono?

La mitezza è certamente uno di questi, il livello degli attacchi personali, degli attacchi di genere e alla persona, gli insulti e il gergo molto greve usato da figure istituzionali, ad esempio negli attacchi ai “Saviano”, o quello più recente alla neo ministra all’Agricoltura, ne sono la dimostrazione. Però ce ne sono altri, ad esempio l’appropriatezza: la comunicazione deve essere appropriata alla figura istituzionale che la veicola. È necessaria, poi, chiarezza: abbiamo avuto una presenza indefinita di Matteo Salvini che sui social mischiava i ruoli: il papà, il personaggio Matteo Salvini con la fidanzata, coi figli e la Nutella, poi il segretario della Lega, poi ancora il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno. Sono ruoli diversi ai quali spetta una comunicazione diversa.

Gli altri punti?

Un altro punto è la competenza. Le istituzioni, i soggetti pubblici, devono comunicare con un linguaggio competente: circostanziato, non generico, deve dare dati e citare fonti certe. Non deve parlare in maniera generale per categorie vaghe. Poi c’è un ultimo punto: deve essere necessaria.

Che cosa intende?

Noi siamo oggi travolti da una quantità di comunicazioni da parte di figure istituzionali del tutto inutili, di cui non sentiamo minimamente il bisogno. Attenzione, non è solo Matteo Salvini ad averlo fatto, lui è solo la punta dell’iceberg. Penso al post di Dario Franceschini prima del giuramento, del tutto non necessario che non aggiunge niente se non che chi è ritratto nella foto è allegro e contento, ma non è una comunicazione pubblica. Anzi, penso sia stata indisponente.

Pensa a una comunicazione più regolata?

Un aspetto ulteriore, sì, è che questo tipo di comunicazione dovrebbe essere regolata. Forse vale la pena di pensare a dei codici comportamentali, non dico delle leggi, che facciano sì che i personaggi pubblici e istituzionali abbiano delle regole di comportamento.

Di che tipo dovrebbero essere?

Ad esempio, tutto ciò che viene postato sulla pagina di un personaggio pubblico diventa sua responsabilità. Non si possono fare post che danno il via a insulti e non assumersene la responsabilità.

L’avvento dell’arena digitale quanto ha cambiato il modo di comunicare dei politici e dei partiti?

Lo ha totalmente stravolto. Ha cambiato gli attori, le regole, i linguaggi. Quando comunico su un social sostanzialmente miro a ottenere una reazione, un like, un consenso immediato, ad essere condiviso. Questa è la logica. Se quello è l’obiettivo, e non informare meglio o di più, il messaggio deve essere rapido – quindi la frammentazione totale del discorso -, ed è così che il messaggio politico si contrae nei famosi 280 caratteri, deve suscitare emozioni. Si parla di “pubblici affettivi” con cui il personaggio di turno deve creare un legame e lo si fa con le famose “call to action”, come ha fatto più volte Salvini con i suoi “che faccio, lo mangio?” oppure, “rispondete, dite la vostra”. Ecco, questo tipo di comunicazione è priva di senso nel discorso politico, però si confonde il numero di like con il consenso e allora si lavora su questo aspetto e non sul contenuto.

È la logica del social network a richiederlo…

Ormai è chiaro che le piattaforme partecipative non sono neutre, hanno delle loro logiche e modalità di funzionamento. Se le utilizzo è chiaro che sono portato ad adeguarmi allo stile e al linguaggio che le caratterizzano. Se poi li enfatizzo, per il discorso pubblico diventa deleterio. Non si tratta di chiudere i social, però se i soggetti pubblici, dal governo alle istituzioni ai principali partiti, fossero in grado di regolarlo seppure con un’autoregolamentazione sarebbe forse un buon punto di partenza.

Cosa pensa della chiusura delle pagine social di CasaPound e Forza Nuova?

Ancora non sono chiare le motivazioni, ma in linea di massima stiamo parlando di pagine e di movimenti politici che fanno apologia di fascismo. Il punto, però, è che non dev’essere Facebook a decidere di intervenire applicando in maniera diretta la legge e la Costituzione. Sono dopo tutto organizzazioni legali, quindi una piattaforma privata non si può sostituire alla legge. Dovrebbero invece essere sciolte dal ministero dell’Interno. Ancora non sono chiare le motivazioni dietro al chiusura, mi pare di aver capito che siano state chiuse per atti specifici, per invito all’azione su fatti ben precisati e non per le posizioni estreme o per incitazione all’odio. È ovvio che è un tema molto scottante, perché ormai una pagina social non è più uno strumento privato, o non solo, avendo un impatto diretto sulla qualità della nostra democrazia e sul confronto politico.

Quali sono le forze politiche che più usano i social network per comunicare con il pubblico?

Secondo una ricerca dell’EEMC, European Elections Monitoring Center, che ha monitorato le campagne social delle diverse forze politiche prima delle elezioni europee di maggio scorso i partiti che più di altri hanno usato Facebook sono proprio i partiti sovranisti e antieuropei, di estrema destra, quelli che insomma non sono inseriti nei circuiti dei media mainstream e hanno trovato nella rete uno strumento alternativo.

La ricerca dice anche che tra le forze politiche europee, i partiti ad aver usato maggiormente Facebook sono Lega e Movimento 5 Stelle. Cosa dice questo dato?

L’Italia è il Paese che ha fatto più uso di Facebook nelle 4 settimane che hanno preceduto il voto, e parliamo solo degli account ufficiali dei partiti e non quelli dei singoli leader o dei candidati. Gli account di Lega e Movimento 5 Stelle sono quelli che hanno utilizzato di più i post su Fb, non solo per la campagna elettorale, a dimostrazione che Facebook è uno strumento quotidiano e non strettamente legato alla propaganda elettorale. Come l’Italia, anche il sud Europa ha fatto questo stesso uso del social, guarda caso le realtà in cui c’è un basso indice di lettura, di diffusione dei quotidiani, il più basso indice di laureati, insomma una serie di elementi che devono essere valutati assieme.

Pensa sia possibile riuscire ad affermare nuovi modelli e differenti stili nella comunicazione politica e nel livello del dibattito pubblico? E se sì, come?

Assolutamente sì. Innanzitutto non è necessario stare in rete e postare 20 diversi contenuti al giorno, la questione della necessarietà di cui parlavamo prima. Non sono necessarie le foto con la fidanzata o con i figli, o, per fare un esempio diverso, la foto di Renzi e Orfini che giocano alla Playstation. Un leader che ha avuto un registro totalmente diverso è stato invece Paolo Gentiloni che ha adottato un low profile. Un nuovo registro, quindi, è essere presenti, ma esserci poco.

Come si fa a emergere, però, nel flusso interminabile di contenuti che riempiono le pagine social?

Non è che fare 50 post al giorno sui temi più svariati aumenta l’importanza di quello che si dice. Si avranno in proporzione più like, ma così non si incide sulla qualità del dibattito o sull’importanza di quello che si dice. Assistiamo a una deriva, in cui lo stesso Calenda posta la sua foto a torso nudo dopo aver fatto il bagno nel lago ghiacciato, ma a chi importa? Sarà mite, ma dov’è l’appropriatezza? Così facendo si contribuisce alla deriva di cui parlavo prima. Fare pochi post può mantenere alta l’attenzione su quello che si dice, quando lo si dice.

Cosa consiglierebbe al nuovo esecutivo, su questo tema?

Quello che abbiamo detto fino ad ora: una comunicazione che sia mite, appropriata, competente, necessaria e regolata. Sono punti che si possono ampliare, ma che devono fare da linee guida. E poi andare controtendenza e commentare poco, creare attorno a sé un minimo di attesa, di silenzio e quando si comunica che sia necessario e non puro intrattenimento. Se poi si hanno pochi followers non importa, perché se il contenuto della propria comunicazione è importante e necessario arriverà lo stesso negli altri media, come tv e giornali. E poi, ancora una volta, la regolamentazione.

Si dovrebbe aprire un dibattito su questo?

Sarebbe importante puntare a un codice di autoregolamentazione interna, e poi iniziare a pensare a delle regolamentazioni più ampie, come la responsabilità in capo al proprietario di una pagina. Chi pubblica un contenuto è responsabile di quello che viene postato e anche della moderazione dei commenti che su quel contenuto verranno fatti. Così non sarà più possibile istigare reazioni di pancia o mettere alla berlina una persona attraverso un post che scateni reazioni violente. Non si tratta di censura, ma di un sistema di controllo che come per i giornalisti mira a filtrare i contenuti che vengono resi pubblici attraverso la responsabilità condivisa dal giornalista stesso e dal direttore responsabile.

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