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Con l’impeachment torna il Russiagate. I sospetti di Trump su Obama (e l’Italia)

Per la Casa Bianca esiste forse un collegamento tra il Kievgate che ha portato all’avvio della procedura di impeachment nei confronti di Donald Trump e le interferenze russe del 2016 al centro dell’inchiesta dell’ex procuratore speciale Robert Mueller? E l’Italia ha avuto un ruolo?
Non è una certezza granitica, semmai un’ipotesi, ma potrebbe essere questa una delle tante, possibili chiavi di lettura per comprendere il viaggio – improvviso e non pubblicizzato, ma emerso ugualmente – del procuratore generale Usa William Barr a Roma.
Una visita irrituale quella del ministro della Giustizia americano, che anche i media americani hanno faticato a descrivere, ma che lo avrebbe portato venerdì scorso a volare a Roma per incontrare alcuni alti funzionari dello stato italiano, ai quali avrebbe chiesto aiuto per fare chiarezza sulle origini del Russiagate.

L’inchiesta americana sulle interferenze di Mosca si è conclusa tra le polemiche, con Mueller che ha sostanzialmente detto di non avere dubbi sul fatto che la Russia – con l’ausilio di hacker e troll – abbia tentato di influenzare l’andamento delle presidenziali che hanno eletto il tycoon. Mentre lo Studio Ovale e il suo entourage hanno sempre parlato di ‘fake news’ e caccia alle streghe.
Da tempo, però, nell’amministrazione americana ci si interessa a un altro possibile scenario, quello delinato da George Papadopoulos, un ex collaboratore di Trump nella campagna elettorale del 2016, dalla quale fu poi allontanato. L’uomo – che via Twitter ha parlato della missione di Barr nella Capitale – dice di essere stato usato come esca e messo al corrente dell’esistenza di mail compromettenti, di provenienza russa, su Hillary Clinton.

Un piano che – sostiene Papadopoulos – sarebbe stato orchestrato in ambito occidentale non con l’intento di aiutare Trump, ma per screditarlo. E in questa storia, è la tesi di Papadopoulos, qualcosa si sarebbe mosso anche sul territorio italiano.

Seguendo anche questa pista, l’amministrazione Usa ha provato a ricostruire il contesto nel quale il piano anti Trump sarebbe maturato. Per farlo è tornata indietro alla seconda metà del 2016, quando Barack Obama si accingeva a terminare il suo secondo mandato alla Casa Bianca, mentre Matteo Renzi si sarebbe dimesso da lì a qualche mese da primo ministro.
Tra i due c’era una grande amicizia politica e forse anche personale; e entrambi condividevano la preoccupazione per le interferenze russe, come dimostra un aneddoto raccontato nel 2018 in un libro da Ben Rhodes, all’epoca vice consigliere per la sicurezza nazionale.
In particolare, scrisse l’ex alto funzionario, il 18 ottobre del 2016 Renzi, ancora capo di Palazzo Chigi, si trovò alla Casa Bianca e denunciò a Obama le presunte azioni di Mosca sul voto per il referendum costituzionale: “Stanno facendo in Italia le stesse cose che fanno qui”, ovvero favorire Donald Trump, avrebbe detto.

E, un anno dopo, l’ex vicepresidente americano Joe Biden, che oggi sfida Trump in campo dem, rilanciò pubblicamente su Foreign Affairs l’accusa secondo la quale ci sarebbe stato un presunto intervento della Russia per boicottare il referendum costituzionale in Italia e andare in aiuto di grillini e Carroccio (mentre la nostra intelligence ha sempre detto, in sede di Copasir, di non aver notato alterazioni del risultato elettorale conseguente a attività di hackeraggio o trollaggio provenienti dall’estero).
Ma se complotto c’è stato – e se personaggi italiani hanno davvero contribuito a che si realizzasse – è nei rapporti che collegano ambienti statunitensi, italiani e altri pezzi politici europei che l’amministrazione Trump sta cercando di capire con maggiore chiarezza che cosa è accaduto.

L’episodio di whistleblowing che ha portato alla luce i contenuti della conversazione fra Trump e il suo omologo ucraino Zelensky, che agita le acque della politica americana quando manca un anno alle prossime presidenziali, è stato per la Casa Bianca un ulteriore campanello d’allarme.
Non è un segreto, d’altronde, che fra il tycoon e l’intelligence i rapporti siano tesi da tempo e che, nel recente Kievgate, pezzi dell’amministrazione nutrano il sospetto di uno sgambetto compiuto proprio da una intelligence ostile.

Fantasia? Realtà? Impossibile dirlo. Ma è difficile non notare che, se confermata, la visita di Barr a Roma sarebbe arrivata solo una manciata di giorni dopo quella del capo della diplomazia americana Mike Pompeo. L’intento del viaggio del procuratore generale potrebbe aver avuto dunque un intento preparatorio per il numero uno del Dipartimento di Stato, il che significherebbe che l’ipotesi di trame internazionali e domestiche contro Trump – prima confinata a un piano di doverosi approfondimenti di rito, avrebbe raggiunto i più alti livelli politici di relazione internazionale tra i due Paesi.


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