Mentre negli Usa monta la preoccupazione per possibili interferenze russe, cinesi e iraniane alle prossime elezioni presidenziali del 2020, Twitter decide di mettere al bando, a livello globale, gli spot politici sulla sua piattaforma. Una scelta che divide non solo il mondo dei legislatori americani, ma anche quello degli stessi social network, che sugli introiti derivanti dalle inserzioni basano una grossa parte del loro attuale business model.
L’ANNUNCIO DI TWITTER
L’annuncio è arrivato dal ceo della società, Jack Dorsey, che ‘cinguettando’ ha sottolineato come la pubblicità sui social media comporti “rischi significativi” perché “può essere utilizzata per influenzare il voto e le vite di milioni” di persone”. La nuova policy, ha spiegato il manager, sarà in vigore dal prossimo 22 novembre e riguarderà sia gli spot su questioni politiche, sia quelli dei singoli candidati. “Noi pensiamo – ha aggiunto – che la capacità di raggiungere una platea debba essere guadagnata e non comprata”.
LE INTERFERENZE SUI SOCIAL
Di utilizzo dei social a fini di profilazione e diffusione di messaggi politici si è discusso moltissimo nel caso di Cambridge Analytica. Per quanto riguarda interferenze straniere, è ancora viva oltreoceano la memoria del Russiagate e il ruolo, denunciato nel report del procuratore generale Robert Mueller, della cosiddetta ‘fabbrica dei troll’ di San Pietroburgo, l’Internet Research Agency. E non passa giorno che le piattaforme non blocchino reti di bot o comunque profili volti a diffondere attività di propaganda.
LE DICHIARAZIONI POLITICHE
Ciononostante, la decisione di Twitter ha generato opinioni contrastanti nella politica a stelle e strisce. Gli organizzatori della campagna per la rielezione di Donald Trump alla presidenza hanno attaccato il social media, spiegando che con la sua mossa avrebbe “voltato la faccia a centinaia di milioni di dollari di potenziali ricavi, una decisione stupida per i suoi azionisti”. Twitter, ha commentato, in una nota il manager della campagna del tycoon, Brad Parscale, “bloccherà anche gli spot degli organi di stampa di parte che ora potranno acquistare senza controllo contenuti politici volti ad attaccare i repubblicani?”. Un modo, questo, per tornare su un’accusa frequente dell’inquilino della Casa Bianca, ovvero che i social media tentino di censurare le voci conservatrici.
Di segno opposto l’opinione di Hillary Clinton, colpita da attività di hackeraggio che le indagini Usa hanno ricondotto proprio a azioni messe in moto dai servizi di intelligence di Mosca con l’intento di danneggiarla.
“Questa è la cosa giusta da fare per la democrazia in America ed in tutto mondo”, ha twittato l’ex segretario di Stato, che ha più volte ha imputato in parte la sua sconfitta elettorale nel 2016 contro Trump al fatto che i social media non avrebbero fermato le fake news su di lei che dilagavano sulle loro piattaforme.
In particolare, la Clinton criticava il fatto che Facebook permetta ai candidati di cariche politiche di pubblicare spot che non vengono sottoposti ad un ‘fact-checking’, una verifica dei fatti.
Non a caso, chiudendo il suo messaggio, ha chiamato in causa il colosso di Menlo Park, scrivendo: “Che cosa dici @Facebook?”.
CHE FA FACEBOOK?
Il social network fondato e guidato da Mark Zuckerberg, infatti, è uno dei più utilizzati e, dunque, uno dei più esposti ad attività di disinformazione. Facebook – che ha registrato un aumento dei ricavi trimestrali, il terzo di fila – raccoglie gran parte delle sue entrate proprio dalle inserzioni e sembra non voler seguire Twitter nella sua scelta. L’ad ha spiegato che la sua azienda non intende soffocare il dibattito politico, e che la pubblicità politica inciderà per lo 0,5% dei ricavi di Facebook il prossimo anno. Ma, in vista della campagna elettorale in parte già entrata nel vivo, le pressioni nei confronti di Zuckerberg sono destinate a aumentare.