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Così gli Usa spiegano al mondo i rischi del 5G cinese

“Vogliamo essere sicuri che il mondo sia pienamente consapevole dei rischi che comporta l’introduzione della tecnologia 5G nell’infrastruttura o nella dorsale delle reti che gestiscono le comunicazioni globali”. La campagna di sensibilizzazione diplomatica e politica degli Stati Uniti nei confronti degli alleati e dell’opinione pubblica sui rischi ritenuti connessi a tecnologie cinesi entra nel vivo con le parole del numero uno di Foggy Bottom, Mike Pompeo, e con una vera e propria iniziativa informativo-mediatica del Dipartimento di Stato.

IL PORTALE DEL DIPARTIMENTO DI STATO

Dopo il video pubblicato negli scorsi giorni, lo State Department ha lanciato un portale contenente la visione americana sul tema del 5G, all’interno del quale delinea opportunità e rischi delle nuove reti e offre suggerimenti sulle policy da adottare (già definite durante un summit a Praga), che si riferiscono soprattutto alla necessità di affidarsi a fornitori di Paesi “affidabili”. La Cina, naturalmente, non rientra tra questi secondo Washington.

LE MOSSE DELLA FCC

Le parole di Pompeo non sono le ultime azioni americane per arginare la presenza cinese. In piena sintonia con la linea dura adottata dalla Casa Bianca, la Federal Communications Commission, l’agenzia governativa incaricata del controllo delle telecomunicazioni, ha messo all’angolo i colossi tech cinesi come Huawei. Il gigante di Shenzhen ha annunciato ora che sfiderà la decisione dell’authority, ma nonostante gli sforzi – notano gli analisti – sarà Washington a dettare le regole del gioco.

CHE COSA SUCCEDE

Il 22 novembre – aveva anticipato da Formiche.net – la Fcc, presieduta dall’avvocato Ajit Pai, ha scelto di impedire ai clienti delle compagnie delle aeree rurali statunitensi di attingere a un fondo governativo da 8,5 miliardi di dollari per acquistare attrezzature dalla società cinese. Non solo: la scorsa settimana, il regolatore delle telecomunicazioni degli Stati Uniti ha votato per proporre di richiedere ai vettori di rimuovere e sostituire le apparecchiature di Huawei dalle reti esistenti.
Dopo questa scelta, spiega oggi il Wall Street Journal, il colosso di Shenzhen ha deciso di contestare la decisione della Fcc, che potrebbe mettere in ginocchio la telco cinese oltreoceano. Il provvedimento, infatti, si unisce all’entrata di Huawei nella ‘lista nera’ del Dipartimento del Commercio, una mossa che di fatto impedisce alle compagnie Usa di vendere componentistica o software all’impresa cinese, che ha proprio nella vendita di apparecchiature per le telecomunicazioni il suo più grande business negli Stati Uniti.

LOTTA DI… CARTE BOLLATE

Stando alle fonti citate dalla stampa d’oltreoceano, Huawei dovrebbe depositare la causa la settimana prossima presso la Corte d’Appello di New Orleans. La compagnia fondata da Ren Zhengfei dovrebbe rendere nota l’azione legale nei prossimi giorni con una conferenza stampa nel suo quartier generale di Shenzhen. Per contestare l’ordine della Fcc, la telco cinese ha 30 giorni dal giorno in cui il regolatore ha votato il provvedimento.

PER ORA VINCE WASHINGTON

Tuttavia, rilevano gli addetti ai lavori, difficilmente l’azienda – che inizia a soffrire pesantemente, anche nei conti, l’offensiva americana – riuscirà a migliorare la sua posizione a suon di carte bollate. Dietro l’offensiva statunitense nei confronti di Huawei, si è più volte scritto su queste colonne, c’è infatti una valutazione più ampia che parte dal livello tecnologico per abbracciare quello politico e sociale. Washington pone infatti l’accento sulla fusione, pressoché totale in Cina e spinta da Xi Jinping, tra civile e militare. Una situazione che Donald Trump prova a scardinare evidenziando come esempio più forte di questa cosa la legge sull’intelligence che obbliga le aziende di Pechino a collaborare con la madrepatria, e facendo pressing sugli alleati su tecnologie strategiche come il 5G. Senza contare il negoziato sui dazi, che gli Usa affrontano denunciando come non vi sia reciprocità tra il mercato americano, aperto agli investimenti, e quello cinese, in larga parte chiuso alle Big Tech Usa (e non solo). Finché questi nodi non saranno sciolti, dunque, è difficile pensare che il pressing della Casa Bianca possa diminuire.

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