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L’Italia infrange le regole e gli investitori fuggono. Il caso Ilva letto da Clini

La posta in gioco è alta, forse non lo è mai stata così tanto. L’Italia rischia di dare l’addio definitivo alla siderurgia che conta, oltre a mettere sulla strada migliaia di famiglie. Nel giorno in cui lo Svimez certifica la grande fuga dal Mezzogiorno e Federacciai annuncia che l’Italia, dopo esser stata per anni tra le top 10, scivola all’undicesimo posto mondiale tra i Paesi produttori d’acciaio, restando seconda in Europa subito dopo la Germania, da Taranto arriva una notizia che può spiegare molte cose: Arcelor Mittal si prepara ad abbandonare l’Ilva, in seguito alla soppressione nell’ambito del decreto Salva-Imprese del cosiddetto scudo legale contro i reati ambientali. Costo per il Paese, 24 miliardi di euro, circa l’1,4% del Pil. Il panico, comunque, non ha tardato ad arrivare a Roma.

Nel pomeriggio si sono susseguiti vertici di emergenza al Mise e in serata il premier Conte ne ha convocato uno straordinario a Palazzo Chigi. Domani, poi, potrebbe essere la stessa Mittal a incontrare Conte. Parola d’ordine, nessuna chiusura di Taranto, Mittal o non Mittal. Con lo spettro di un gigantesco contenzioso legale visto che lo stesso esecutivo ha dichiarato la non sussistenza delle condizioni per recedere il contratto per la gestione dell’acciaieria. La domanda di fondo è però una soltanto: che cosa rende così complicato il rapporto tra Italia e grandi investitori? Formiche.net ne ha parlato con Corrado Clini, docente, dirigente di Stato ed ex ministro dell’Ambiente nel governo Monti. Proprio da ministro Clini scrisse e promosse quell’autorizzazione ambientale che consentì l’avvio del processo di bonifica dell’area.

Professore, brutte notizie da Taranto… c’era da aspettarselo?

Due elementi potevano indurci ad aspettarci una simile scelta. Punto primo, Mittal è stata scelta dal governo sulla base di un accordo che prevedeva l’immunità su certe questioni. Una norma che peraltro considero di buon senso perché consente all’impresa che realizza un risanamento ambientale di non essere esposta a sanzioni. Regole inoltre in linea con la direttiva Ue in materia del 1996. Punto secondo, nel momento in cui l’azienda ha firmato l’impegno al risanamento, a un certo punto il ministero dell’Ambiente ha deciso di revisionare l’autorizzazione ambientale che regola gli interventi.

Quindi?

Quindi nel momento in cui questi due presupposti che sono alla base dell’accordo non valgono più, è logico aspettarsi una reazione da parte di chi investe. Sulla seconda questione, quella dell’autorizzazione ambientale faccio notare che era facoltà del governo apporre modifiche. Ma ciò non toglie che la revisione stessa rappresenti una forzatura verso la controparte, con tutte le conseguenze del caso.

Lo Stato non ha rispettato i patti e l’azienda ha preso le sue decisioni…

Naturalmente, gli investitori si interrogano dinnanzi a un cambiamento delle regole in corsa. Se io Stato non rispetto le regole che sottoscrivo allora quale credibilità posso avere? Ed è quello che è accaduto con Arcelor Mittal all’Ilva. Delle regole sono state modificate e questo non solo è un problema per Taranto, ma è un problema nazionale. Quale messaggio arriva da un Paese che si comporta così? Dove si firmano i contratti e poi si cambiano le carte in tavola? Per questo dico che la decisione di Mittal era in un certo senso prevedibile.

Colpa di una cultura anti-industriale che permea i territori secondo lei?

Altroché. Ma lo sa che quando nel 2012 il gruppo Riva (ex proprietari dell’Ilva, ndr) firmò un impegno da 3 miliardi per la bonifica dell’area mi fu detto che era un regalo ai privati. Ecco, è questo che intendo. Trasformare impegni seri per obiettivi altrettanto seri in qualcosa di negativo. In Italia abbiamo da almeno dieci anni una retro-cultura che non ammette che l’industria e il suo sviluppo possano andare di pari passo con la tutela ambientale. E questo è grave per un Paese industrializzato.

Il M5S, nato proprio 10 anni fa, ha spesso cavalcato questa protesta…

Non vorrei esprimere giudizi politici. Però che ci sia una certa refrattarietà allo sviluppo industriale rispettoso dell’ambiente è cosa certa.

Clini, adesso che si fa? Se Mittal conferma l’addio…

La nazionalizzazione rimane sempre una suggestione alla base del commissariamento. Ma francamente mi rifiuto di pensare a un’Alitalia bis. Diciamo che nazionalizzazione o meno, e sulla prima ricordo che ci sono regole Ue sugli aiuti di Stato da rispettare, ho una semi-certezza. Taranto perderà colpi, Ilva andrà incontro a una perdita di competitività, con più ore di cassa integrazione e una progressiva perdita di attività. I numeri oggi dicono questo (l’acciaieria perde 2 milioni al giorno, circa, ndr). Ho l’impressione che siamo entrati in una spirale dalla quale è difficile uscire.



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