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Ilva non deve chiudere ma qualcosa non ha funzionato. I dubbi di Viesti

In mezzo a tanto caos, una certezza. L’Ilva non deve chiudere. Facile a dirsi, più complicato a farsi. Il problema è che qualunque sacrificio si possa sostenere, qualunque sforzo, avrà un costo sempre minore del mandare l’acciaieria in malora. Trattare con Mittal sarebbe giusto. E altrettanto giusto sarebbe trovare una cordata alternativa al gruppo franco-indiano. Persino la nazionalizzazione sarebbe un boccone amaro ma da mandare giù. Gianfranco Viesti, docente di economia applicata all’Università di Bari ex membro del board Cassa depositi e prestiti, parte esattamente da qui.

Viesti, quello che si sta vivendo a Taranto in questi giorni è un vero dramma. Perché siamo arrivati a tanto?

Ci sono stati molti errori, anche nella conduzione della vicenda da parte del governo, senza limitarmi alla questione del famoso scudo penale. Mi sembra fin troppo evidente che dal governo Renzi in poi qualcosa abbia smesso di funzionare. Dal lato industriale invece, i comportamenti di Mittal hanno sollevato molti, moltissimi dubbi.

Per esempio?

Come è possibile che un investitore di tale calibro che si aggiudica un impianto così importante non conosca il contesto di tale impianto? Oppure non abbia previsto le oscillazioni del mercato dell’acciaio? E perché dopo un anno decide di tirarsi indietro? Ci sono un mare di dubbi, è vero che c’è stata una caduta del mercato ma se prendi Taranto devi avere una visione di lungo periodo, devi calcolare dei rischi.

Anche il governo però, sembra aver sbagliato qualcosa…

La questione è molto ingarbugliata ma temo che ci sia qualcosa al di là dello scudo. Se fosse stato solo quello, bastava ripristinarlo. Io credo che da Renzi in poi non abbia funzionato qualcosa. Dovremmo sentire i protagonisti della gara, a cominciare da Calenda. Quello che però davvero conta è che l’Ilva non può chiudere. Non deve.

Costi quel che costi?

I rischi di una chiusura dell’Ilva sono talmente enormi, talmente importanti che non deve chiudere. Nella maniera più assoluta, dobbiamo fare di tutto affinché questo non accada. I costi di uno stop sarebbero sempre maggiori di un salvataggio. La Svimez, tanto per citare un numero, parla di 50mila persone a rischio con lo stop all’acciaieria. Lei ha mai visto una città che in un giorno perde 20, 30 o 50mila posti di lavoro?

Bisogna trattare con Mittal?

Dobbiamo mettere da parte l’orgoglio italiano. Mittal ha i suoi interessi, l’Italia i suoi, bisogna trovare un accordo. E se questo non è possibile, allora trovare una cordata di imprese che possa subentrare. Insomma, lavorare con Arcelor e nel frattempo con altri investitori privati.

Ci stiamo dimenticando lo Stato, che a suo modo è un investitore. Cdp?

Con Cdp bisognerebbe valutare una partecipazione di minoranza per accompagnare un investimento.

Facciamo i pessimisti. Nazionalizzazione unica via…

Tutto pur di non chiudere l’acciaieria. Come ultima, ultimissima istanza sì. Taranto è talmente importante che non bisogna dire di no a niente, nemmeno alle ipotesi estreme. Se dovessi scegliere tra chiusura e nazionalizzazione, sceglierei la seconda perché la prima ha un costo assurdo, anche ambientale. Immaginiamo per un attimo un’area come quella abbandonata? Anche se trovassimo i soldi per mantenere i lavoratori a vita, lasceremmo ai posteri una superficie doppia di Taranto a cielo aperto, con una bonifica che costerebbe quanto un salvataggio. E allora tanto vale…

Se le dico che un Paese senza politica industriale come il nostro certe cose deve aspettarsele, lei che mi risponde?

Sì, stiamo portando avanti una politica industriale in cui gestiamo le crisi invece di prevenirle e fare sviluppo. La politica industriale nella sua forma peggiore. Sono d’accordo con chi dice, come l’ex ministro Fabrizio Barca, che serve una nuova mission per le imprese. Non serve fare solo profitti, serve una nuova vocazione.

 Ci può fare un esempio?

Cdp, di cui sono stato consigliere. Funziona benissimo, ma non ha una mission politica. Voglio dire, serve qualcosa in più, serve una mission. Altrimenti ci si limita a intervenire laddove il privato fallisce.

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