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Xinjiang e Hong Kong. Tra Washington e Pechino lo scontro ora è sui diritti

La Cina intima di nuovo di bandire i titolari di passaporti diplomatici statunitensi dall’ingresso nella regione autonoma dello Xinjiang, l’area in cui Pechino ha iniziato una campagna di stabilizzazione a problematiche di sicurezza, che però viene denunciata dalle organizzazioni sui diritti umani perché diventata una sorta di rieducazione di massa che colpisce cittadini musulmani (di etnia uiguri e non solo) anche senza che abbiano commesso reati o dato segni di pericolosità.

Ad alzare il monito stavolta è stato il direttore del quotidiano Global Times, organi con cui il Partito comunista cinese diffonde anche in inglese le proprie visioni. Hu Xijin, che dirige l’edizione cinese del giornale, ha scritto in un post su Weibo che Pechino sta valutando anche restrizioni ai visti d’ingresso per funzionari e legislatori statunitensi che si sono caratterizzati per posizioni “particolarmente odiose” in merito alle problematiche che affliggono lo Xinjiang.

La questione da giorni è tornata sotto i riflettori perché sono usciti due set di documenti interni – che sulla stampa passano come “Xinjiang Papers” – in cui si dimostra come il Partito, fino ai massimi vertici (ossia fino al segretario e capo dello Stato, Xi Jinping) era parte del progetto con cui sono stati creati i campi di internamento dove gli uiguri e altre minoranze etniche musulmane vengono rinchiusi sulla base anche di operazioni di polizia predittiva (dunque anche soggetti innocenti).

Il tema dello Xinjiang è una delle grandi questioni che pesa sulla Cina, potenza globale dalla forza economico-commerciale mastodontica che però ha carenze enormi sul campo del rispetto dei diritti per i propri cittadini. Il punto sta nella centralità dell’area: la regione ha avuto episodi di radicalizzazione e insorgenza e questo per Pechino è un problema inaccettabile visto che lo Xinjiang si trova lungo una rotta cruciale per la Nuova Via della Seta. Gli Stati Uniti (e non solo) stanno usando certe situazioni per dimostrare come la crescita economica cinese sia anche legata al non rispetto di principi etici e valoriali su cui si basa l’Occidente e che hanno implementato lo standard di vita globale.

Il Congresso, come il dipartimento di Stato, si è mosso su temi come lo Xinjiang o come la repressione a Hong Kong, ma da Pechino ha ottenuto in cambio operazioni di rappresaglia la cui aggressività è crescente – attività che sono partite da una denuncia pubblica contro gli Usa dell’ambasciata italiana e che ormai coinvolgono molto gli avamposti diplomatici del Dragone. Ieri il governo cinese ha fatto sapere di aver vietato l’ingresso al Porto Profumato alle navi della marina americana e di aver messo sotto sanzioni alcune Ong responsabili di aver dato ascolto alle proteste hongkonghesi. Una ritorsione dopo che da Washington era stata tradotta in legge, nei giorni scorsi, un provvedimento politico bipartisan che aveva l’obiettivo di delineare il futuro dei rapporti Usa con l’ex colonia britannica e di dare sostegno alle richieste pro-democrazia.

Secondo una fonte definita “vicina al presidente Trump” dal sito Axios, il dossier Hong Kong, da sette mesi senza pace, e la legislazione americana è quello che sta tenendo “in stallo” un potenziale accordo sul commercio tra Cina e Stati Uniti. Mesi fa, dopo l’ultimo incontro con Xi Jinping, Donald Trump aveva promesso di non muoversi su Hong Kong, ma l’intensità delle repressioni – che ha tradotto le manifestazioni in dimostrazioni violente – ha portato la Casa Bianca ad avallare la linea presa dai congressisti. Sebbene con le dovute distanze: Trump ha chiesto s‘è detto costretto a intervenire e ha detto che la legge è quasi una limitazione delle sue libertà.

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