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Vi spiego la pedagogia del primo Sanremo dell’era post-sovranista

La kermesse canora di Sanremo è uno dei più potenti simboli dell’Italia; sempre diverso, ma sempre uguale a se stesso, Sanremo ci restituisce un’immagine del Paese reale e delle sue dinamiche e torsioni efficace quanto un rapporto di sociologia. Per questo, vale la pena soffermarsi sull’immagine che esce da questo potente specchio del Paese e provare a riflettere sulle tendenze della realtà sociale che, in prospettiva, assumeranno una rilevanza anche nella costruzione dell’agenda politica, delle sue risposte, delle sue proposte.

Il primo Sanremo dell’era post-sovranista si qualifica come un fenomeno di massa (con ascolti monstre, che sfiorano i 10 milioni e il 55% dello share) con una offerta di spettacolo a geometria variabile, in cui è possibile trovare proposte gradite ai boomer (specie tra gli ospiti, con Albano e Romina, i Ricchi e Poveri o concorrenti in gara come Rita Pavone), ai generazione X (che hanno ritrovato, uguale nel tempo e nello spazio, come ospite la Sabrina Salerno degli anni ’80, Fiorello – ancorato ad un tipo di comicità molto anni ’90, almeno nel contesto sanremese, insieme ai concorrenti Michele Zarrillo, Piero Pelù, Irene Grandi, Tosca), ai Millennials (con l’offerta delle performance di artisti affermatisi nella proposta di temi a loro cari in modo trasversale, come Gabbani, Nigiotti, Levante, e il superospite Tiziano Ferro) per giungere ai GenZ, la generazione fiocco di neve, cui si rivolgono Achille Lauro, Rancore, Junior Cally. Una macedonia musicale in cui tutti, prima o poi nel corso di serate interminabili, riescono a trovare qualcosa di proprio gusto, per cui valga la pena rinviare l’abbraccio a Morfeo.

Se dal punto di vista musicale la scaletta è stata costruita con questa finalità, differente si fa il discorso sull’offerta di ospiti musicali, sportivi, artistici, culturali, provenienti dal mondo della società civile, che sembra molto orientata a finalità orientate all’educazione e sensibilizzazione del grande pubblico. Sanremo è uno di quei pochissimi eventi massmediali seguiti in modo generalista dalla maggior parte della popolazione italiana. Il festival è un’occasione per parlare alle masse di temi e questioni di fondo tramite un evento mediatico dotato di unitarietà e in grado di raggiungere tutti.

A questo si devono le scelte artistiche molto standard, come il monologo di Roberto Benigni; il focus puntato sui grandi campioni come Djokovic, che sul palco si prestano a performance di canto in lingua italiana, riducendo lo scarto tra la dimensione della celebrity globale e quella del made in Italy.

Vengono così presentate tematiche e testimonial appartenenti a mondi che difficilmente trovano uno spazio mediatico così ampio e diffuso non scevra dall’intenzione di superare quella modalità dell’odio espresso ad alta voce, caratteristica della stagione sociale e politica recente. Nella scaletta hanno trovato così posto il monologo di Rula Jebreal sulla violenza contro le donne; la canzone di Paolo Palumbo, malato di Sla ma in grado di esprimere la propria forza di vivere sul palco; Mika e Tiziano Ferro, capaci di trasmettere una più ampia accettazione delle questioni legate al mondo Lgbtq, grazie al talento; lo spazio musicale di Ghali, simbolo di una integrazione sociale connessa alla musica. Si tratta di messaggi scelti con cura, finalizzati a non escludere alcuna componente della articolazione sociale e a fornire una corretta cornice di comprensione dei formati di differenza di cui ogni persona è portatrice.

Dalla varietà di queste esperienze plurali – defilate nella vita di tutti i giorni e ridotte a spazi liminali sui media da palinsesto ordinario ma rese esemplari dalla presenza sul palco sanremese – si fa quel tanto di pedagogia collettiva che la televisione di servizio pubblico presenta in sé dalla sua genesi, ma che diventa assai difficile da praticare in un contesto collettivo dominato da frammentazione sociale, presentismo e bolle informative da social network.

Insomma, Sanremo come elemento collettivo per la costruzione di un noi più inclusivo e a più voci si presenta come un modello in linea con il superamento degli antagonismi e delle divisioni sociali più recenti, anche se, questo progetto culturale, nella sua costruzione a tavolino, non arriva sempre a superare le forti resistenze di una società, come quella italiana, con status e ruoli ascrittivi (di età, di genere, di appartenenza etnica, di orientamento sessuale, di confessione religiosa) rigidi fino al limite dell’insuperabile.

Ed è la ragione per cui, gli artisti e gli ospiti più liberi e lontani dai cliché sono spesso anche i più criticati nei luoghi pubblici, fisici e virtuali, in cui si parla di Sanremo. Così, risulta più facile, in questo progetto post-sovranista, portare ad esempi casi singoli – la giornalista palestinese, il ragazzo con disabilità, il cantante che ha dichiarato la propria omosessualità o quello che ha avuto successo grazie ad un utilizzo sapiente dei propri caratteri di etnicità – anziché liberare le categorie collettive. Fino a che le donne saranno inserite nel novero delle “vallette” anziché come co-conduttrici, e i cantanti non saranno più distinti per categorie “giovani” e “big”, questa pedagogia sociale costruita mediante l’evento massmediale resterà incompiuta nella società e, di riflesso, nella politica.


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