È un leghista doc, Raffaele Volpi, “e sì, anche un ex democristiano”. A sentirlo parlare, col suo aplomb istituzionale, riesce difficile immaginarlo a fianco del segretario del Carroccio, il mattatore di piazza Matteo Salvini. E invece fra i due c’è reciproca stima, e oggi Volpi è una colonna portante del partito. Colonna pensante, ma anche d’azione, precisa lui in un lungo colloquio con Formiche.net. Anche perché al Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), il comitato di raccordo fra Parlamento, Servizi e governo che presiede da settembre, l’azione non manca di certo. Dalla Libia all’Iraq, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla sicurezza delle banche italiane a quella della rete 5G, le competenze dell’organo consultivo di palazzo San Macuto sono sconfinate. E utili, se c’è qualcuno disposto ad ascoltarne i consigli.
Dicono che Raffaele Volpi sia un leghista sui generis…
Sono un leghista doc. Ho passato quattro anni e mezzo a inventarmi un partito al Sud. Sono uno che pensa lento, ma lavora tanto.
E lavora bene, con Matteo Salvini?
Certo. Il nostro segretario ha fatto un lavoro straordinario. In cinque anni ha portato un partito dal 4% al 34% delle scorse europee. Questo nessuno glielo può negare.
In Emilia-Romagna una prima battuta d’arresto. Serve un salto di qualità?
Lo abbiamo già fatto. In questi anni abbiamo allargato il perimetro geografico del partito, ora stiamo allargando il perimetro politico, e i risultati ci danno ragione.
Quindi non le dispiace una Lega che guarda al campo moderato.
Me lo chiede perché sono un ex Dc? Io non mi faccio problemi a dirlo (ride, ndr). Anzi, i numeri oggi ci consentono di recuperare e riaggiornare quella scuola politica. La Lega, oggi, è un partito interclassista. Dietro ai titoli di giornali e alle notizie di cronaca c’è una politica più alta, non sempre visibile. Qualcuno ci definisce “di destra”, io penso che abbiamo un’anima popolare.
Anche perché la destra in Italia è rappresentata da Fdi. Parola di Giorgia Meloni.
Non sta a me dare etichette politiche. Alla Meloni va riconosciuto il merito di aver iniziato un percorso per abbandonare un certo retaggio e trasformare Fratelli d’Italia in una destra moderna, inclusiva.
E internazionale. In Europa sembra muoversi meglio della Lega.
Noi abbiamo un’ottima rete di rapporti in Europa. Le grandi famiglie europee non sono più rappresentative della loro storia. Il Ppe (Partito popolare europeo) non è più quello dei padri fondatori.
La vostra famiglia sovranista, Identità e Democrazia, non è un po’ isolata a Strasburgo?
Se isolati significa avere una propria identità politica e non cedere sui temi identitari, allora ben venga l’isolamento. A volte quel che da fuori appare unità in verità è consociativismo: una continua, estenuante contrattazione sui principi fondamentali, un eterno compromesso a ribasso.
Meloni ha anche buoni rapporti con gli Stati Uniti. E i vostri?
Sono saldi e continuativi. Con l’alleato americano condividiamo molte delle scelte strategiche cui è chiamato il nostro Paese, dagli F-35 alla sicurezza del 5G.
Volpi, lei presiede un comitato bipartisan. Sembra che con la maggioranza non si trovi tanto male.
Mi trovo molto bene con tutti i componenti. C’è un senso di responsabilità istituzionale che, francamente, è difficile trovare altrove.
Che idea si è fatto della politica estera di questo governo?
Da politico, ed ex sottosegretario alla Difesa, mi sembra che scontiamo questa voglia positiva di coinvolgere in tutti i processi l’Europa. Purtroppo non si può fare sempre: ogni Paese guarda al suo quadrante geografico di riferimento. L’Italia, ad esempio, è l’attore più importante del Mediterraneo e lì deve guardare. È giusto, in situazioni di crisi, tentare un approccio comune, come abbiamo fatto con la Conferenza di Berlino sulla Libia, purché non si trasformi in un alibi.
Per cosa?
Un via libera da parte di altri Stati membri ad azioni unilaterali in Nord Africa, magari apertamente contrarie ai nostri interessi nazionali. La nostra priorità è esprimere vicinanza al popolo libico, e porre fine alle ostilità.
Con una missione Onu?
Ad esempio. Ci sono gli estremi per una partecipazione italiana. Il rischio è che un’azione prettamente diplomatica risulti depotenziata senza una presenza sul terreno.
Ci spieghi meglio.
Prima di qualsiasi iniziativa l’Europa deve fare un’analisi seria degli attori presenti in Libia. Deve domandarsi se la presenza di Russia e Turchia sia passeggera o rientri in un disegno geopolitico più ampio. Io propendo per la seconda lettura. I russi si sono presi i porti in Siria, la Turchia sta perseguendo un progetto neo-ottomano in Medio Oriente e in Africa.
Gli Stati Uniti? Possono dare una mano all’Italia?
Come ha detto il ministro Guerini, prima ancora di considerare un intervento militare, è auspicabile che gli Stati Uniti spendano nella regione tutto il loro peso politico.
Sotto la Libia c’è il Sahel, una regione martoriata dal terrorismo e dalle faide tribali. La Francia lì ha 4500 soldati, e ha chiesto un interessamento del governo italiano.
Ci fa piacere che i francesi si siano accorti che da soli non risolvono i problemi. Il Sahel è un’area strategica, lo è tutta la regione sub-sahariana da dove passano i flussi migratori. In questi Paesi, penso alla Nigeria, vanno in scena vere e proprie operazioni di ingegneria sociale, formali ed informali, per invitare, o meglio forzare le persone a cercare una vita migliore in Europa.
Nelle vostre audizioni al Copasir avete parlato di Mediterraneo allargato. Esiste un’emergenza Eastmed, il gasdotto che dalla Grecia arriverà in Puglia?
Non solo. Certo, le tensioni sulle risorse energetiche al largo delle coste di Cipro con la Turchia, un alleato e membro fondamentale della Nato, sono preoccupanti. Ma con Mediterraneo allargato si indica un’area più ampia, che arriva allo stretto di Hormuz, in Iraq e in Afghanistan. L’Europa, con un po’ d’orgoglio, e grazie al rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, potrebbe giocare un ruolo più proattivo.
A proposito di Iraq, il governo italiano ha discusso con gli Stati Uniti di una più stabile presenza della Nato. Lei è d’accordo?
Penso che la Nato stia attraversando un momento di grande evoluzione, è un’organizzazione sempre più dinamica, che deve muoversi in un teatro globale. Quest’alleanza è nata per ragioni storiche che, in parte, vanno aggiornate. Lo abbiamo fatto da membri dell’Assemblea parlamentare della Nato, proponendo e ottenendo un riconoscimento formale del fianco Sud, dove spicca il nostro Hub di Napoli.
Parliamo di Difesa. Al Senato è stata calendarizzata la proposta del Movimento Cinque Stelle di un’agenzia per l’innovazione della Difesa. L’idea la convince?
Sorprende che la proposta arrivi dal Movimento Cinque Stelle. Quando hanno governato con noi si sono occupati di un tema fondamentale, il benessere dei militari, con particolare attenzione alla parte sindacale, e un po’ meno di innovazione.
Cosa manca, secondo lei, alla Difesa italiana?
Come ha detto anche Guerini, dobbiamo incentivare la cultura della Difesa. L’Italia ha un impegno militare all’estero molto pronunciato. Servono investimenti, modulati a seconda delle possibilità, per non rimanere indietro nell’innovazione tecnologica. Dobbiamo promuovere alleanze con i nostri partner per investire nelle tecnologie produttive e far crescere l’industria italiana.
Chiudiamo sul 5G. Il rapporto del Copasir invita a valutare un’esclusione delle aziende cinesi dalla banda ultralarga.
Partiamo dall’inizio, così facciamo chiarezza.
Prego.
Abbiamo trasmesso un rapporto al Parlamento. Tutto il comitato, compreso quello precedente presieduto da Guerini, ha avuto accesso a delle evidenze che, per ovvie ragioni, non si possono condividere all’esterno.
Quindi?
Deve essere chiaro che non facciamo politica, né discriminiamo nessuno. Abbiamo fatto una segnalazione di pericoli concreti, siamo un organo fiduciario del Parlamento. Ora tocca al governo decidere, con quali mezzi non sta a noi dirlo. Ognuno si prenda le proprie responsabilità.
Il governo dice che la normativa italiana è all’avanguardia. È sufficiente?
A me il bivio sembra più semplice: aspettiamo a dare le concessioni o le diamo a prescindere dalle raccomandazioni del Copasir? Mettiamo in vendita la sicurezza del Paese per qualche milione? In queste settimane si è molto parlato della normativa italiana esemplare sul perimetro di sicurezza cibernetica nazionale, del golden power. In pochi hanno detto che il lavoro del Copasir ha dato un impulso ai comitati di altri Paesi europei, dove il dibattito era finito in sordina.
Intanto avete inaugurato un nuovo ciclo di audizioni sull’esposizione del sistema Paese. Da dove partirete?
Dal settore bancario e assicurativo, e dalle banche che detengono un alto livello di debito sovrano.
È vero, come qualcuno ha ipotizzato, che volete controllare i manager stranieri di grandi banche come Generali e Unicredit?
Non è assolutamente vero, non entreremmo mai nelle dinamiche di mercato. Gli azionisti sono liberi di scegliere, ed è giusto che sia così. Come è giusto verificare se ci siano stati condizionamenti esterni dietro a quelle scelte.