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Rebus petrolio, le ultime news dalla partita tra Russia, Arabia Saudita e Usa

Secondo quanto detto alla Cnbc da Kirill Dmitriev, Ceo del Fondo sovrano russo (non una fonte di secondo livello, insomma), Russia e Arabia Saudita sono “very very close“: un accordo per decidere sul futuro del petrolio potrebbe arrivare giovedì 9 aprile e si dovrebbe avallare la linea dei tagli alle produzioni per tentare di rialzare almeno in parte il prezzo del greggio.

Riad aveva convocato il vertice (virtuale, causa pandemia) del sistema di produttori petroliferi Opec+ per oggi, 6 aprile, dopo che il 4 marzo un incontro del genere era finito malamente innescando un tonfo storico nei prezzi del greggio. Un mese fa Mosca aveva rifiutato di accettare un taglio alle produzioni, e i sauditi erano andati al muro contro muro annunciando aumenti dell’output e sconti extra che aveva portato il barile attorno ai 20 dollari. Complice la contrazione enorme della domanda prodotta dalle conseguenze sulle economie reali dei blocchi imposti dall’epidemia di coronavirus, la situazione si è resa insostenibile.

Era stato il tertium (non) datur, il presidente americano Donald Trump, a dare uno stimolo al mercato dopo che nei giorni scorsi aveva annunciato “conversazioni” (“molto buone”, linguaggio basic e non fraintendibile) tra russi e sauditi. Con un tweet aveva rilanciato in alto – in parte – le quotazioni. Poi è arrivata la notizia del vertice. La Russia ha accettato subito la partecipazione, ma ha anche fatto sapere che servono più giorni e per questo l’incontro odierno è slittato – a giovedì, data strategica perché nei giorni successivi i mercati finanziari sono chiusi per la pausa pasquale.

Vladimir Putin ha chiamato il bluff di Trump: “È possibile parlare di una riduzione da 10 milioni di barili al giorno”, una cifra enorme. Il primo a parlarne era stato proprio Trump. Si tratta di oltre cinque volte quanto richiesto ai russi dagli emissari dell’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, al vertice di marzo. Ai tempi si parlava di 1,7 milioni giornalieri.

La domanda era già in piena crisi – un evento tutt’altro che improvviso, visto che i giornali scientifici stanno dando da fine gennaio chiare proiezioni sulla dimensione globale dell’epidemia (aspetto su cui non era imprevedibile la sovrapposizione di un outlook negativo per la domanda). Ora il quadro è drammatico, e potrebbero non bastare i 10 milioni di taglio: per Fatih Birol, direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia, forse ne serviranno più del doppio per coprire le eccedenze (che ormai non c’è più spazio per stoccare).

Putin ha dichiarato che il taglio va calcolato sui livelli di estrazione del primo trimestre, programmati prima della pandemia quindi, ma anche prima che scadessero – a marzo – i tetti di produzione imposti dall’Opec Plus. Soprattutto però ha detto che per attuarlo sarà necessaria una “partnership”, ossia: “Siamo pronti ad accordi con i partner e nella cornice dell’Opec Plus. E siamo pronti alla cooperazione con gli Usa”. Trump è chiamato a prendere una posizione, perché un sistema multilaterale internazionale sul petrolio sta prendendo forma, e molti attori stanno prendendo posizioni a favore dei tagli.

La partita internazionale è giocata tra i tre big, più influenti comparse (come gli Emirati Arabi, per esempio). Le parole di Putin sono chiare e implicano una sorta di allineamento con i sauditi e con altri produttori. Non verrà accettata da parte di Washington una linea diversa rispetto ai tagli. Gli Usa non fanno parte dell’Opec e del sistema allargato, agiscono in modo indipendente, ma questo Mosca (e Riad) non sembrano tollerarlo più.

Gli Stati Uniti, con lo sfruttamento degli shale oil, sono diventati il primo produttore al mondo: estraggono 13 milioni di barili giornalieri e non hanno partecipato ai tagli precedenti. Ora dovranno muoversi. Ed è difficile convincere le società private americane a seguire linee dettate dal governo, ma il rischio è di finire accusati di affossare i prezzi.

Una fotografia della situazione è stata scattata Larry Kudlow, il consigliere economico strategico della Casa Bianca: “Non possiamo ordinare politiche di produzione – è il sistema di libero mercato americano a impedirlo anche sotto il quadro legale – ma il dialogo con sauditi e russi ora è aperto e “non c’è motivo per credere che non darà frutti”. Anche Dmitriev ha detto qualcosa di simile.

Il Wall Street Journal ha scritto che un’idea è chiudere le piattaforme del Golfo del Messico, usando l’escamotage di evitare contagi: in realtà si ridurrebbe di 2 milioni di barili al girono la produzione Usa – che ruota attorno a 13. Ci sono anche linee più aggressive: vietare le esportazioni (come  fino al 2015) o ancora misure tariffarie contro il petrolio straniero. Qualcuno, come il Texas e la Oklahoma Energy Producers Allianc, ha invece iniziato a muoversi addirittura in modo indipendente; i texani hanno avuto contatti diretti con russi e sauditi.

Le produzioni tagliate dovrebbero favorire un rialzo dei prezzi – resta il condizionale, perché il vero problema è il calo della domanda e l’incertezza generale legata al virus. I primi dati, funzionali agli annunci sul maxi-progetto di riduzione delle produzioni, fanno segnare un rialzo delle quotazioni.

La scelta di ridurre le esportazioni potrebbe piace agli shaler americani (che estraggono con costi più alti e per guadagnare hanno bisogno chiaramente di un mercato che permetta migliori marginalità). Però non è chiaro quanto le società accettino di partecipare ai tagli o se sottintendano che debbano essere soltanto gli altri Paesi a ridurre i flussi.

Sullo sfondo, un’altra partita politica interna agli Usa: il rialzo dei prezzi potrebbe portare Trump in difficoltà sui costi alla pompa, che sono invece un elemento cruciale per ogni presidente in fase di rielezioni. Trump ha comunque dalla sua che, come per ogni leader in mezzo alla tempesta, la crisi del coronavirus sta portando crescita nell’approvazione: capitale politico da investire in altri campi.

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