“La situazione è sospesa. Tutti quelli con cui ho parlato in queste ultime ore si aspettano un contrattacco di Haftar. E dunque altro sangue”. La fotografia della situazione in Libia è di Karim Mezran, analista dell’Atlantic Council, da anni punto di riferimento mondiale sul dossier. Formiche.net l’ha raggiunto telefonicamente a Washington per commentare la situazione in corso. Khalifa Haftar, signore della guerra dell’Est libico, ha recentemente perso terreno nella sua offensiva verso Tripoli (lanciata il 4 aprile 2019).
Da giorni Tripoli è martellata dall’artiglieria di Haftar. All’inizio di maggio c’è stato lo stesso numero di vittime civili di tutto il mese di aprile. L’Lna, la milizia haftariana, non risparmia zone residenziali. Vuole vendetta. Le forze del Gna, il governo di Tripoli internazionalmente riconosciuto, spingono la controffensiva anche grazie all’aiuto della Turchia (in campo perché a novembre scorso ha firmato un memorandum di cooperazione militare con l’esecutivo libico). Dietro ad Haftar si muovono in particolare gli Emirati Arabi, che sono i più convinti sponsor esterni del miliziano.
Recentemente, sono stati mostrati — attraverso le immagini di un satellite open-source — sei Mirage-2000 emiratini pronti nella base di Sidi Barrani in Egitto: sono stati dispiegati da diversi mesi, e probabilmente hanno già compiuto qualche missione in Libia. Il dubbio è: da adesso saranno parte integrante di quei rinforzi che Haftar dice pronti al contrattacco? Un aspetto non secondario, perché muovere più apertamente assetti militari del genere significherebbe che Abu Dhabi ha intenzione di entrare in guerra in modo diretto e non più fornendo supporto discreto. Perché? “Non sarei stupito se gli Emirati decidessero di spingersi a tanto: d’altronde, se non c’è controllo, se non c’è nessun richiamo a forme di responsabilizzazione internazionali, perché fermarsi?”, chiosa Mezran.
Ma perché proseguire? “Gli emiratini non possono perdere la Libia, ossia non possono perdere la faccia sulla Libia (soprattutto dopo quanto successo in Yemen) – continua l’analista dell’Atlantic Council – e ormai per loro c’è stata una sedimentazione di motivazioni. S’erano impegnati inizialmente perché Bengasi non cadesse in mano ai gruppi radicali (è da lì che parte la collaborazione con Haftar, che ha poi liberato Bengasi dalle milizie estremiste, praticamente radendo al suolo la città, ndr). Poi hanno pensato al controllo della Libia, a espandere quella campagna militare a tutto il Paese. Poi il petrolio, il confronto con la Turchia e il Qatar che sono sull’altra sponda della guerra, la situazione del Mediterraneo orientale, i rapporti personali creati tra Mohammed Bin Zayed (l’erede al trono emiratino, ndr) con alcuni esponenti del fronte haftariano. Non c’è una ragione per cui proseguono. È la sommatoria di varie ragioni che li ha fatti essere iper-presi dal dossier, profondamente coinvolti e non in grado più di tirarsi indietro”.
È il peso degli attori esterni sulla crisi, un elemento che è diventato sempre più centrale. Perché sostanzialmente quegli attori esterni, essendo meno coinvolti direttamente possono pressare per la continuazione della guerra – l’invio di aiuti militari, di determinati armamenti come i droni, e il finanziamento per la fornitura di contractor, non creano per quei Paesi il rischio che i propri cittadini muoiano nella guerra, per esempio. “E dobbiamo ricordarci – spiega Mezran – che dal punto di vista dell’analisi militare, nessuna delle due parti è realmente in grado di sovrastare l’altra. Vedo due opzioni in effetti: nella prima Haftar potrebbe chiedere a un certo punto la separazione del Paese, impossibilitato a prendere Tripoli; nella seconda potrebbe riuscire a sfondare le linee tripoline se i turchi e le milizie pro-Gna dovessero non reggere più, ma in quel modo sarebbe una carneficina, perché non ha la capacità di gestire la conquista di una città enorme come la capitale libica”.
Tra gli attori esterni interessati al dossier c’è anche l’Italia. Le dinamiche nel Paese nordafricano sembrano non attirare l’attenzione di Roma – forse anche a causa della pandemia – ma è la Libia a chiamare: due giorni fa, l’ambasciata italiana a Tripoli ha rischiato di finire sotto i razzi dell’artiglieria di Haftar, che ha centrato un palazzo vicino (uccidendo e ferendo diversi civili). “L’Italia ahimè è destinata all’irrilevanza. Devo dire che sono contento e allo stesso tempo stupito che il governo italiano abbia lasciato fare all’ambasciata una dichiarazione severa, dove finalmente si parlava apertamente di un attacco di Haftar su Tripoli. Una posizione diversa dalle solite: quelle con cui Haftar viene descritto come un interlocutore”.
In questi giorni sia il vicepremier libico, Ahmed Maiteeg, che il premier, Fayez Serraj, sono usciti sulla stampa italiana (rispettivamente Repubblica e Corriere della Sera, un giorno dopo l’altro) e hanno inviato un messaggio secco all’Italia: Roma non è più vista dai libici come il partner prioritario. “Ma mi chiedo – aggiunge Mezran – cosa manca ancora all’Italia per comprendere come stanno le cose. Come si fa a pensare che l’ambivalenza sia un fattore positivo? Che senso ha ancora pensare ad Haftar come un attore interessato al negoziato? E che interlocutore è, per uno stato di diritto, un dittatore che se vince la guerra la vince sul sangue dei libici?”.
L’altro ieri il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, ha avuto un colloquio telefonico con il russo Vladimir Putin. Telefonata arrivata come un saluto per la missione medico-militare russa, alla vigilia della Giornata della Vittoria russa. Secondo la nota di Palazzo Chigi, “i due leader hanno inoltre convenuto sull’importanza di giungere a una tregua umanitaria in Libia”. Ma la Russia è un partner credibile sulla Libia? “Mosca ha un’enorme ambiguità. Ufficialmente mostra un volto diplomatico, ma clandestinamente aiuta Haftar, fornendogli assistenza militare attraverso contractor privati. E Haftar vede gli italiani come ostili”.
Da almeno due anni è nota la presenza in Libia dei mercenari russi dalle società Wagner, entità tutt’uno col Cremlino schierata spesso al posto dei militari regolari per portare avanti il lavoro sporco e clandestino – ossia senza il coinvolgimento statuale russo e tutto ciò che comporta in termini politici, diplomatici e sociali. Dall’autunno scorso, la presenza dei contractor russi è stata rafforzata e se n’è iniziato a parlare con maggiore assiduità anche perché in una prima fase quei militari, tutti molti addestrati ed equipaggiati, avevano cambiato l’inerzia dei combattimenti. Quando però è diventato chiaro che Haftar era più sensibile agli input provenienti da Abu Dhabi e dal Cairo, la Russia è diventata meno attiva nel sostenere il generale orientale.
Recentemente, dopo il tentativo di all-in con il golpe per obliterare il ruolo dell’Onu nella crisi, Haftar ha anche ricevuto una critica aperta da parte di Mosca. E pure da parte dell’Egitto. “Il Cairo è uno degli attori che finora è stato più coinvolto, ma gli egiziani stanno iniziando a valutare che l’investimento dietro Haftar non porta dividendi, perché non vince e forse non riuscirà mai a farlo. Vedono che gli Emirati inviano fondi per combattere, e iniziano a pensare che quegli stessi fondi potrebbero servire al loro paese, più che alla guerra di Haftar”.
Come procederà? “Non vedo una soluzione nel medio periodo. Sul campo, nonostante le volontà di spingere sulle armi, nessuno è in grado di vincere. Politicamente ci sono attori importanti come l’Italia o gli Stati Uniti, o il Regno Unito, che hanno deciso di non giocare un ruolo. Poi ci sono le posizioni ambigue come quella della Russia, dell’Arabia Saudita e della Francia, e le contrazioni egiziane. Impossibile fare previsioni se non una: ci saranno altri morti tra i libici. Purtroppo”.