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Boomerang Huawei. Le aziende Usa temono il contraccolpo del bando di Trump

Una profezia che si autoavvera. È questo il succo delle tesi dei principali critici nei confronti del bando imposto dall’amministrazione statunitense al colosso delle telecomunicazioni di Shenzhen, con l’ultimatum del dipartimento del Commercio arrivato il 15 maggio scorso. Una volta concluso il periodo transitorio (circa quattro mesi) Huawei, additata come il braccio sinistro del Partito comunista cinese e pertanto potenziale minaccia alla sicurezza nazionale, non potrà più acquistare chip e semiconduttori da aziende che utilizzano tecnologia americana. 

Il riferimento è alla Sezione 889, parte B, della National defense authorization act, la legge che richiede alle aziende di verificare che l’intera supply chain a livello globale (e non soltanto la quota di business destinata al governo americano) sia sprovvista di componenti da Huawei, il gigante Zte, Hangzhou Digital Technology e altre compagnie digitali cinesi. Alla scadenza prevista per il 13 agosto, se tale sezione verrà esercitata letteralmente, tutte le industrie implicate nel settore hi tech (aerospazio, digitale, automotive, eccetera) che riforniscono il governo saranno obbligate a rivedere l’intera catena di produzione e a conformarsi a una delle più restrittive misure volute dal Congresso negli ultimi decenni. Con conseguenze ancora inesplorate sulla tenuta dei sistemi informatici, dei provider, dei cloud americani e internazionali che potrebbero essere costruite con componenti fornite dalle aziende inserite nella black list. Michele Geraci, intervistato su Formiche.net, aveva dichiarato come il decoupling dalle tecnologie cinese avrebbe “penalizzato le aziende americane” ed “accelerato il processo di sviluppo di quelle cinesi”. 

Una parziale risposta ai possibili scenari, con l’avanzamento del decoupling dalla Cina nei settori ad alto contenuto tecnologico, sembrava averla proposta la Semiconductor Industry Association con un piano d’investimenti per riportare la produzione e la R&D sul suolo americano, come raccontato le settimane scorse da Formiche.net. Tuttavia, la risposta del business americano è stata piuttosto lenta, d’altronde, sotto la costante pressione di Capitol Hill. Come riporta uno scoop di Bloomberg, sembra che si stia diffondendo un vero e proprio “panico”, dal momento che il “Congresso è dannatamente serio circa la volontà di eliminare la tecnologia cinese dai nostri sistemi infrastrutturali critici”, ha commentato David Hanke che ha lavorato alla stesura della legge sulle appropriazioni della Difesa. Per questo la business community si sta mobilitando per chiedere più chiarezza sull’implementazione della legge. Alcuni vorrebbero ritardarla approfittando del nuovo pacchetto di stimoli per affrontare la crisi economica, magari puntando a calmierare i vincoli quando sarà il momento di ridiscutere il bilancio per la Difesa. Tra i richiedenti, Apple, Lockheed Martin e Ford. Difficile capire i margini di manovra con il crescere delle tensioni tra Pechino e Washington e il probabile irrigidimento dell’amministrazione Trump. 

Se da una parte sul suolo domestico vi sono alcune resistenze, non era così scontato che in altri mercati queste restrizioni potessero sin da subito registrare alcuni effetti positivi. A livello globale, il problema di fondo è prima di tutto il grado di interdipendenza del settore, come in Europa e in Africa, dove Huawei conta comunque una presenza molto importante a differenza del mercato americano. Nel Vecchio continente, la fornitura di tecnologie 5G da parte di Huawei e Zte è una realtà consolidata, dalle immense implicazioni per la sicurezza, come dimostra il possibile naufragio del Cyber Security Centre in Belgio. Nel mentre l’attenzione in Europa ha raggiunto livelli importanti, come testimonia l’interessante proposta di dare forma ad un “club” di democrazie per promuovere la governance e lo sviluppo di campioni europei per la fornitura di 5G (con Ericsson e Nokia in prima linea). Dal punto di vista americano, alcuni osservatori non hanno comunque risparmiato critiche rispetto a una strategia unilaterale di decoupling dalla Cina. Come hanno ricordato in una riflessione su Foreign Affairs i ricercatori Henry Farrell e Abraham Newman (divenuti celebri per la diffusione del concetto di “interdipendenza armata”), il caso Huawei è emblematico: “Bloccare Huawei dall’accesso alla tecnologia americana potrebbe, per prima cosa, incoraggiare compagnie estere a ridisegnare le loro supply chain ruotando su fornitori di tecnologie non-americane. Invece del decoupling, gli Stati Uniti dovrebbero dunque immaginare di riaccoppiare le interrelazioni delle catene globali in modo tale che possano renderle meno vulnerabili a rischi e attacchi”. Questo alla luce del fatto che “ogni azione americana contro la Cina”, sia essa offensiva o difensiva, “finirà per indurre a una controreazione cinese”. È una dinamica intrinsecamente legata a una visione binaria e a somma zero delle relazioni tra le due potenze, e che non potrà che rafforzare l’idea alla base dei due autori che “i benefici di bloccare l’accesso di Huawei alle tecnologie americane” siano già del tutto “inseparabili dai rischi”. 

Tuttavia, a confermare parzialmente gli scenari di questa teoria (ma con un possibile lieto fine per gli Usa) è arrivata la recente dichiarazione di Mark Liu, presidente di Taiwan Semiconductor Manufactoring Company (Tsmc), che ha confermato che l’azienza taiwanese potrebbe facilmente colmare il buco negli ordinativi creati dall’amministrazione Trump intenzionata a impedire alla compagnia di vendere microchip a Huawei. Come riportato su Nikkei Asian Review, Liu ha affermato di sperare che lo stop alle vendite a HiSilicon (la divisione di Huawei che si occupa di microchip) non si verifichi, ma in tal caso l’azienda si troverebbe pronta a “rimpiazzarlo in brevissimo tempo” dal momento che esistono “altri clienti e player” in grado di approfittare del vuoto che la divisione cinese potrebbe lasciare “in termini di capacità produttiva e del mercato degli smartphone”. Di questo passo dunque Tsmc si allineerebbe con le restrizioni imposte dal dipartimento del Commercio statunitense il mese scorso, intenzionato a imporre la richiesta di una licenza alle aziende internazionali che vendono a Huawei prodotti realizzati con software o componenti americane. Come ricorda Kevin Wolf (ex assistente del segretario del Commercio durante la presidenza di Barack Obama) sul Financial Times questa “nuova regola non si applica ad alcuna componente che sia fornita a terze parti e non progettata per Huawei, anche laddove le componenti siano spedite a quest’ultima”. È dunque una sottile linea quella che separa le intenzioni degli Stati Uniti di colpire la linea di approvvigionamento del colosso di Shenzen e la volontà di Tsmc di aderirvi completamente, dal momento che è in gioco una considerevole fetta del suo mercato. 

Un caso interessante e border line lo hanno invece offerto le aziende americane Synopsys e Cadence Design Systems, due realtà che insieme a Mentor Graphics di Siemens formano un oligopolio globale nel design automation software, sui quali i produttori mondiali di semiconduttori contano per lo sviluppo delle nuove generazioni di semiconduttori (Tsmc sta inoltre collaborando con l’azienda californiana per lo sviluppo dei nuovi microchip da 5 e 6 nanometri). Come riporta il quotidiano giapponese, le due aziende americane, vista restringersi la finestra di mercato su HiSilicon, hanno ripiegato su altre realtà cinesi con una crescita di 83 milioni di dollari (circa il 13% delle vendite nel trimestre gennaio-marzo). La compagnia ha di fatto “imparato a vivere senza” quelle aziende inserite nella lista degli indesiderati dell’amministrazione americana, mentre uno studio di Koki Inoue, ricercatore presso l’Economic Research Institute della Japan Society for the Production of Machine Industry, ha sollevato il dubbio che quella quota di mercato possa essere stata riempita da società minori con l’aiuto di ingegneri “inviati da HiSilicon”. Un’ipotesi che se confermata avrebbe del clamoroso. Resta il fatto che le iniziative dell’amministrazione statunitense hanno messo Huawei sulla difensiva, costretta addirittura a rivelare il suo programma di accumulo di riserve delle “più essenziali componenti” tecnologiche per i suoi prodotti avviato sin dall’arresto di Meng Wanzhou, Cfo del gruppo e figlia del fondatore Ren Zhengfei, nel 2018, e che potrebbe, secondo le fonti citate dal Financial Times, compromettere fortemente la sua competitività. 

Qualsiasi saranno le conseguenze di mercato interne negli Usa e a livello globale, siamo davvero di fronte a una svolta epocale, dal momento che, come riporta un editoriale del Wall Street Journal, “gli Stati Uniti non stanno soltanto sanzionando un’azienda che si comporta male” ma stanno forzatamente imponendo un “disaccoppiamento dalle supply chain tecnologiche dalla Cina, una mossa che accelererà la frattura di una parte sostanziale dell’economia mondiale in due sfere d’influenza”. Nel lungo periodo, “mettere in sicurezza i network delle telecomunicazioni dalla Cina richiederà bastone e carota” ovvero, in breve, “rendere le tecnologie 5G meno care in modo che i paesi possano dire di no a Huawei”. 



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